UNA VITA PER LA POESIA: ARSENIJ TARKOVSKIJ (1907-1989)

“A me sembra che per la poesia sia molto importante che il poeta sia il sosia dei suoi versi. La Cvetaeva definiva i poeti maestri di vita, così tanto compatte, unite erano a suo giudizio la realtà del mondo e la realtà della poesia. Il destino può schiacciare un uomo, può rendere la sua sopportazione un atto eroico. La poesia è una seconda realtà, nei suoi confini scorrono avvenimenti paralleli a quelli della vita, vive delle stesse cose di cui vive la vita, la vita è un miracolo e anche la poesia è un miracolo. La cosa più straordinaria nella vita è questa capacità di guardare il mondo e la conoscenza di sé, la più lampante differenza tra la natura morta e la natura viva. L’arte è viva per questo principio. Da questo punto di vista la poesia, la prosa e le altre attività dell’intelletto umano sono equipollenti. Non giova ripetersi ma lo dirò ugualmente: la poesia si rapporta alla prosa come il miracolo all’esperienza filosofica. Beninteso, a patto della sua autenticità”.

Ai versi

I miei versi, uccellini, eredi,

esecutori testamentari, querelanti,

bocche chiuse ed interlocutori,

santarelli e boriosi!

Io stesso sono senza famiglia e senza stirpe

e sono stato miracolosamente modellato a mano

appena la pala del tempo

mi scagliò nella ruota del vasaio.

Mi tirarono il lungo collo,

mi arrotondarono l’anima

ed incisero epici fiori

e foglie sul mio dorso.

Ed io dissipai il calore della betulla,

come insegnava Daniele,*

benedissi la mia rosea alba

e come un profeta cominciai a parlare.

Di arida, ocra, dannata

terra a lungo io sono stato ma voi

mi cadeste sul petto accidentalmente

dai becchi degli uccelli, dagli occhi dell’erba.

(1960)

*Il poeta fa riferimento all’episodio, narrato ne “Il libro di Daniele”, in cui tre adolescenti, amici di Daniele, furono condannati dal re Nabucodonosor al rogo per avere caparbiamente sostenuto la propria fede ma ne uscirono vivi. Infatti ogni volta che qualcuno provava ad attizzare il fuoco, veniva ucciso mentre un angelo del Signore soffiava sulla pira un vento “pieno di rugiada”. (NdT)   

Nel 1923 giungeva a Mosca dalla natia Elisavetgrad, oggi Kropyvnyckyj-Ucraina, il giovane poeta Arsenij Tarkovskij. Era cresciuto in una famiglia colta: anche suo padre scriveva versi ed era stato amico di Lenin. La madre era seguace del pedagogo tedesco Friedrich Fröbel secondo il quale, tra l’altro, anche i maschietti fino all’età di cinque anni dovevano essere vestiti con abiti femminili: cosa che avvenne con Arsenij ed il fratello magiore Valerij.

Arsenij (a destra) con il fratello maggiore Valerij e la madre Marija Danilovna – Elisavetgrad 1909
Arsenij Tarkovskij -1908

A Mosca il giovane artista cominciò a lavorare nella radio e nei giornali letterari ma già nel 1932 arrivò la condanna per “misticismo” con conseguente esclusione da qualsiasi attività lavorativa/letteraria. E non poteva essere altrimenti: la poesia di Tarkovskij era una poesia “da camera”, poesia d’un solitario  che si rivolge ad altri solitari nella assoluta estraneità con il mondo del Potere e della Storia. La rivoluzione fa parte del trapassato prossimo e l’armamentario degli slogans del suo tempo non trova il poeta ostile ma completamente estraneo, come se questi vivesse in un altro mondo: la dacia dove penetravano le farfalle.  

Un enorme impatto nella vita di Tarkovskij sia dal punto di vista professionale che umano ebbero la conoscenza e la frequentazione con quelle che all’epoca erano considerate le due più grandi poetesse viventi: Anna Achmatova e Marina Cvetaeva. 

Arsenij conobbe l’Achmatova nel 1946: ebbe per lei un’autentica venerazione che lo portò a dichiararle: “tutta la mia vita è passata sotto la Vostra stella…”. L’Achmatova lo stimava molto e ne parlava con grande affetto. Una volta disse al poeta leningradese Anatolij Najman che Tarkovskij le leggeva i versi dei suoi vari periodi e che lei: “…ecco, con queste mani io lo trascinavo via dal falò mandel’štamiano”, intendendo dire che lo aiutava a liberarsi dell’influenza di Osip Mandel’štam.

Il manoscritto  

Ad Anna Achmatova

Ho finito il libro ed ho messo il punto

non riuscivo più a rileggere il manoscritto.

Il mio destino si è bruciato tra le righe

mentre l’anima cambiava involucro.

Così il figliol prodigo si strappa la camicia dalle spalle,

così il sale dei mari e la polvere delle strade terrestri

benedice e maledice il profeta,

che in solitudine andava a caccia di angeli.

Io sono quello che vivevo nel mio tempo

ma non ero io. Io il più giovane della famiglia

degli uomini e degli uccelli, io ho cantato insieme a tutti

e non abbandonerò il banchetto dei viventi –

diretto sigillo del loro onore familiare,

diretto vocabolario dei loro legami di radice.

(1960)

Osip Mandel’štam

            Il poeta*   

       Viveva al mondo un cavaliere povero… (A. Puskin)                    

Questo libro tempo fa **

nel corridoio del Gosizdat

me lo regalò un poeta,

il libro era spiegazzato, lacero

e quel poeta tra i vivi non c’è più.

Dicevano che nell’aspetto

il poeta aveva un che di uccello

e di egiziano,

aveva la grandezza indigente

e l’onore stremato.

Come temeva la distesa

dei corridoi! La perseveranza

dei creditori! Egli come un dono

tra mille  smancerie

riceveva il suo onorario.

Così si aggira sullo schermo

con inchini, come un ubriaco,

il vecchio clown con la bombetta

e, come uno sobrio, nasconde la ferita

sotto il gilet di piquet.

Sulle ali della rima binaria,

è finita la periodica impresa –

Buon viaggio a te, addio!

Salve a te, festa di onorario

nera bianca pagnotta!

Si divertiva con la parola ambigua,

sorrideva col becco d’uccello,

assaliva quelli che incontrava,

temeva la solitudine

e leggeva poesie agli sconosciuti.

Così deve vivere il poeta.

Anche io vago per il mondo,

temo la solitudine,

per la centesima volta questo libro

nella solitudine prendo in mano.

Là nei versi ci sono pochi paesaggi,

soltanto la confusione della stazione

e la baraonda del teatro,

soltanto gente alla rinfusa,

mercato, coda, prigione.

La vita, probabilmente, fece una fattura,

il destino stesso compì il sortilegio.

(1963)

* Poesia dedicata a Osip Mandel’stam (NdT)                                              

** Si tratta della raccolta di versi “La pietra” dello stesso Mandel’štam (NdT)                          

Ben più complesso fu il rapporto con Marina Cvetaeva: si conobbero nel 1940 su richiesta della stessa Marina, che era rimasta assai colpita da alcune traduzioni di Arsenij. Si incontrarono la prima volta a Mosca in casa della poetessa Nina Gerasimova.

Così, la stessa Gerasimova ricordava l’avvenimento: “Si sono conosciuti a casa mia quel giorno. Ricordo molto bene quella giornata. Per qualche motivo uscii dalla stanza. Quando tornai, erano seduti vicini sul divano. Dai loro volti emozionati capii: era successa la stessa cosa alla Duncan e ad Esenin. Si sono incontrati, si sono librati in alto, si sono slanciati l’uno verso l’altro. Un poeta verso un altro poeta…”.

Un poeta verso un altro poeta… I due cominciarono a frequentarsi ma quando Tarkovskij, che all’epoca era sposato con la sua seconda moglie, comprese che Marina voleva di più, si spaventò e cominciò ad evitarla: Marina capì.

Il 31 agosto del 1941 la Cvetaeva si tolse la vita impiccandosi ad Elabuga nel Tatarstan, dove era stata evacuata, disperata e nella più completa miseria. Tarkovskij le dedicò un ciclo di poesie nelle quali traspare, oltre al suo personale pentimento, tutta la cieca rabbia per quegli “intellettuali” che avevano negato alla grande Marina Cvetaeva persino un lavoro come lavapiatti nella locale sezione del Sindacato degli scrittori. 

Il monumento a Marina Cvetaeva a Elabuga

Elabuga

Chiamo – non risponde, dorme profondamente Marina.

Elabuga, Elabuga, fango di cimitero.

Con il tuo nome si potrebbe chiamare una palude di fango,

con il tuo nome, come fosse un chiavistello, serrare un cancello.

Con te, Elabuga, si potrebbero spaventare bambini odiosi,

dovrebbero giacere nelle tue tombe mercanti e banditi.

E tu, invece su chi hai soffiato il tuo atroce gelo?

Per chi sei stata l’ultimo terrestre rifugio?

Di quale cigno hai udito il canto prima dell’alba?

Tu hai sentito l’ultima voce di Marina.

Nel tuo micidiale vento anche io gelerò.

Fatta d’abete, maledetta, restituisci Marina!

 (1941)

“La sofferenza è il compagno fisso della vita. Io sono stato completamente felice solo nell’infanzia. Ma esiste una qualche strana capacità di accumulazione delle forze prima di raggiungere alte vette. Non dirò come si fa: forse bisogna ispirare sé stessi, forse insegnare a sé stessi a vedere ma un uomo completamente felice non può scrivere versi.”

E Tarkovskij conobbe davvero il dolore in tutte le sue sfaccettature.

Il 31 dicembre del 1943 fu gravemente ferito in guerra e subì la dolorosa amputazione di una gamba. Camminava grazie ad una protesi che gli provocava penose sofferenze.

Professionalmente dovette attendere il 1969 per vedere la prima pubblicazione delle sue poesie “Pered snegom” (Neve imminente): nel frattempo aveva sbarcato il lunario, come altri poeti “scomodi” del tempo, grazie alle traduzioni dalle varie lingue dei paesi dell’allora impero sovietico.

In campo sentimentale si definiva “un uomo che preferiva amare molto più che accettare l’amore”. Si sposò tre volte.

Tu, come una farfalla bianca e nera,

diversa da noi, selvaggiamente e coraggiosamente

entrasti volando nella mia casa,

non fare fatture su di me, non rendere

il mio cuore più amaro dell’amaro,

la tenebra, ispirata dalla luce,

la stessa oscura fedeltà ai voti

e il fazzoletto che scende dalle spalle.

Ma anche in questo agitar d’ali

lo stesso veleno e un parlare non russo.

(1946)

Di nuovo io in una lingua estranea

sento certi pettegolezzi –

forse sono le zattere sul fiume

forse le foglie che cadono sul tetto.

L’autunno, sembra, è davvero bello.

Forse è lei che fa la vagabonda,

forse è la maligna viva anima

che attacca discorso con sé stessa.

Forse che io non sono abituato a me stesso…

Potessi nuotare fino a sconosciute bassezze,

potessi cantare, come canta lo zatteriere –

più dolorosamente, più sicuramente, più coraggiosamente,

infilarsi l’impermeabile sulla zattera,

potessi cantare, calcando il cappello sulle sopracciglia

come canta sul fiume lo zatteriere

del suo irrecuperabile amore.

(1946)

Nelle macchie della luce, nella confusione delle linee

ho ritrovato me stesso, come un fratello il fratello:

un bombo banchetta proprio nel cuore

della rosa delle quattro coordinate.

Non so chi sono né da dove vengo,

dove sono stato concepito: all’inferno o in paradiso.

So soltanto che in cambio di questo miracolo

darò la mia immortalità.

Non ricorda nulla della patria,

quella che rimesta i petali del mondo,

la quinta coordinata della vita –

l’anima che conosce sé stessa.

(1975)

“Mio padre, ovviamente, è oggi il più grande poeta russo. Senza dubbio. Con una enorme carica spirituale. Un poeta per il quale la cosa più importante è la sua concezione spirituale della vita. Non ha mai scritto nulla per diventare famoso”. Andrej Tarkovskij

Dalla prima moglie Marija Ivanovna Višnjakova Tarkovskij ebbe due figli, Andrej e Marina così chiamata in onore della Cvetaeva. Andrej (1932-1986) divenne un regista di fama internazionale. Nel film “Lo specchio” raccontò la sua infanzia ed il difficile rapporto col padre. A Marina dobbiamo il libro “I Tarkovskij – schegge di specchio”, edito a Mosca nel 2018 che, oltre ad essere una accurata biografia del padre, è un omaggio alla memoria della madre, che aveva cresciuto lei ed il fratello tra immense difficoltà, coltivando sempre il rapporto col poeta e le sue successive mogli.

Arsenij Tarkovskij con il figlio Andrej e Marija Višnjiakova
Marina e Andrej anni ’40

Ne “Lo specchio” Marija interpretava sé stessa in età avanzata mentre Arsenij leggeva suoi versi.

                  La culla         

                                                                        Ad Andrej T.*

Lei:

Passante, perché non dormi per tutta la notte,

perché ti trascini senza mai arrivare,

dici sempre le stesse cose

e non fai dormire il bambino?

Chi ti sentirà ancora?

Cosa hai da dividere con me?

Lui, come un bianco colombo, respira

nella culla di corteccia di tiglio.

Lui:

Scende la sera, i campi diventano azzurri, la terra orfana.

Chi mi aiuta ad attingere l’acqua dal pozzo  

                                                                        profondo?

Non ho nulla, ho perduto tutto lungo il cammino.

Saluto il giorno, vado incontro alla stella. Dammi da bere.

Lei:

Dove c’è il pozzo, c’è l’acqua

ma il pozzo è lungo la strada.

Non posso darti da bere

ed allontanarmi dal bambino.

Ecco abbassa le palpebre

ed il serale, latteo luppolo

avvolge, lambisce

e fa dondolare la culla.

Lui:

Aprimi la porta, esci fuori, prendi da me quello che vuoi –

la luce della sera, un mestolo di acero, la piantaggine.

(1933)

* Poesia dedicata al figlio Andrej

Dio mio, quanto ho amato la poesia, per tutta la vita, ho cominciato a scrivere versi a cinque anni e sempre con serietà e non posso pensare che tutto questo era finalizzato ad avere venti o trenta poesie che avrei voluto pubblicare. Mi consolo pensando che potrò scrivere su tutto quello che so: ci sono pochi poeti in guerra ma bisogna essere qui per diventare saggio come Rembrandt, se non si ha il suo talento, capace di inventare di sana pianta le emozioni di un’unica profondità. Ora posso scrivere tutto quello che voglio, io ho parole per tutto”.

                                                  26 settembre 1943

Tutte le poesie e le citazioni di Tarkovskij, qui presentate, sono tratte dalla “Raccolta delle opere” in tre tomi edita a Mosca, “Chudožestvennaja literatura”, nel 1991. (NdT)

3 Comments

  • Giulio

    Un altro bell’articolo che ci porta alla conoscenza di un grande poeta.
    Riconosco il merito al blog di “portare” con eleganza nei nostri pc la conoscenza di grandi poeti stimolando quella giusta curiosità che porta all’approfondimento. E’ un canale corretto che guida verso la cultura. Complimenti.

  • antonio sagredo

    “Io ti innalzai un monumento
    sulla più lacrimevole delle terre”.

    Questi versi di Andrej Tarkovskij dedicati alla Achmatova si rifanno alla poesia di Puškin:
    “Mi sono eretto un monumento…” del 1836.
    Rileggendo i versi di questa poesia di Puškin si capisce perché dedicati alla Achmatova.
    —–
    E rileggo con sincero entusiasmo i versi di A. T. qui riproposti (solo una infima parte), ma forse bastante per farsi almeno una idea accettabile dei suoi versi.

    Il figlio di A.T., Andrej , fu grande cineasta che lascia alla Russia una cicatrice non mai guarita.
    Del padre riporta nelle visioni cinetiche di un cinema scioccante e malinconico, un pessimismo che lo allontana da Pasternàk e che non è possibile farsi “acquazzone luminoso”!

    A. T. ha conosciuto la guerra partecipando di persona e pagando un durissimo prezzo… e non è stato a mirare gli eventi da una cameretta e questo lo fa poeta combattente anche tramite i suoi versi mai astiosi, ma per similitudine lo si può accostare di più Mandel’štam e questi a suo modo fu acerrimo nemico del potere che ha combattuto.
    Anche se come afferma la Achmatova lo allontanò dalla influenza di Mandel’štam: ma vi riuscì realmente?
    I versi di A. T. hanno avuto , come dire, la sfortuna (parola, lo so, non felice) di vedersela coi versi di grandi poeti a lui contemporanei, e la fortuna di lottare a forza di gomitate per assicurarsi un posticino davvero legittimo tra i grandi: ci è riuscito, cioè si è infilato di prepotenza, come a dire: ci sono anch’io tra di voi e con voi e si è trovato una nicchia per sempre.

    …. per il figlio Andrej , il grande regista di cinema, il padre orgogliosamente afferma che fu il più grande poeta dopo la guerra, sia come testimonianza di una epoca buia (come l’attuale cominciata nel febbraio del 2022, ma la Russia ci ha abituato alle epoche buie), sia come poeta efficace a dettare le sue esperienze senza alcuna paura (più volte fu censurato) e se non fu tacitato definitivamente lo si deve al fatto che fu un notissimo eroe di guerra, e forse perché suo padre fu amico di Lenin).

    Quindi onoriamo questo poeta – coerente fino allo spasimo! – di fronte a quei poeti ai più famosi che dagli anni ’90 del secolo trascorso si inginocchiarono al futuro tiranno di turno…

    ma lasciamo stare!

  • Giorgio Linguaglossa

    L’importanza della poesia di Tarkovskij (1907) tende a crescere con il passare del tempo, questo è un fatto, mentre l’importanza di altri poeti russi e non, tende a diminuire. Il tempo è sovrano, è il miglior critico.
    Da noi il poeta che più gli si può avvicinare (fatte le debite differenze) è Attilio Bertolucci, che nasce nel 1911, intendo il secondo Bertolucci quello della storia familiare che diventa uno spicchio della storia italiana. Ecco, qui sta il punto a mio avviso, che la poesia di Bertolucci da La capanna indiana (1951) in poi non è mai riuscita a diventare emblematica di un passaggio storico, o meglio, i poeti italiani del novecento non sono mai emblematici dei passaggi storici, restano, come dire, a casa, fanno la storia della propria famiglia e poi faranno la storia privata o delle scaramucce letterarie, fino ad oggi che fanno poesia toponomastica e cronachistica. Questa è una caratteristica tipicamente italiana, in Italia la poesia non segue la storia degli avvenimenti italiani ma segue una storia tutta «interna», la storia dell’anima e delle situazioni personali e personalistiche. Nella poesia di Tarkovskij invece si avverte il tinnire dei cavalli nella steppa, il fumo dei camini negli amplissimi spazi ucraini…

    Se la rivoluzione è incentivo al trasognato lirismo di Chlébnikov, la «fame di spazio» occupa totalmente la mente dei grandi poeti russi del Novecento. Chlébnikov percorre due volte, andata e ritorno, la linea ferroviaria Chàr’kov-Kiev e attende la primavera appollaiato in cima a un albero di ciliegio nei pressi di Chàr’kov, o osserva il cielo stellato dall’alto di un treno in corsa. Così, Tarkovskij scrive una poesia ironica su un immaginario improbabile «catalogo delle stelle», e Mandel’štam cita la «lenta asmatica vastità» dell’orizzonte di Voronez ove «lo spazio ha perso gusto e colore», ovvero, guarda «nel bellissimo binocolo Zeiss… tutte le rughe dello gneiss», la catena dei monti dell’Ararat, l’odierna Armenia. Se Chlébnikov è un «viaggiatore incantato», e Brodskij, invece, nel suo esilio, rappresenta il «viaggiatore solitario», Tarkovskij è a metà, l’uno e l’altro, è poeta del sogno e della storia, entrambe le dimensioni trasfigurate nell’alone fiabesco della terribile storia russa, evanescente come un sogno. In Tarkovskij è presenta la imagery dominante della poesia russa del XX secolo che è stata riassunta nella formula: specchio-candela-ombra-sogno, e che dalla Achmàtova passando per Derzavin, Baratynskij e Mandel’štam, giunge oggi fino a Brodskij. Il manierismo debole di certe immagini di Tarkovskij non ha nulla di gratuito o di rococò, ma corrisponde ai movimenti lievi e improvvisi della memoria, d’una memoria inutilizzabile nel mondo che ha conosciuto la barbarie della seconda guerra mondiale; la sua è una poesia da camera, poesia d’un solitario che si rivolge ad altri solitari nella assoluta estraneità al mondo del Potere e della Storia. Lo spietato rigore della metrica e delle rime dei testi originali vuole soltanto ribadire il carattere addomesticato, domato della materia, il virtuosismo tecnico è virtuosismo formale che presuppone il dato dell’esistenza. Il materiale poetico è ciò che rimane della materia viva e palpitante della vita. la rivoluzione fa parte del trapassato remoto, e l’armamentario degli slogans del suo tempo trova il poeta non ostile, bensì completamente estraneo, come se abitasse un altro pianeta, la dacia dove volavano le farfalle. Anche l’orrore degli avvenimenti della propria biografia – come nella poesia «Ospedale da campo», ove viene rivissuto l’episodio dell’amputazione della gamba, avvenuto nel 1943 a seguito della ferita inferta da un proiettile esplosivo presso Velike Luki – viene trasfigurato in atmosfere di sogno e irreali.

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