Vladislav Chodasevič: “Odio con tanta dolcezza e amo con tanta causticità”

“Sin dal primo minuto lui [Chodasevič] produceva l’impressione di un uomo del nostro tempo, in parte addirittura ferito dal nostro tempo – e, probabilmente, a morte…“

                                                                  Nina Berberova da “Il corsivo è mio”

Vladislav Felicianovič Chodasevič (1886 – 1939) è considerato uno degli scrittori più talentuosi dell’immigrazione “bianca”. La sua eredità letteraria consta di cinque raccolte poetiche, decine di articoli di critica, svariate biografie di scrittori russi.

Il poeta nacque a Mosca in una famiglia benestante di origine polacca. Dal padre aveva ereditato “la sua leggendaria alterigia” mentre la madre, figlia del letterato Jakov Brafman di origine ebraica ma successivamente battezzata, gli trasmise l’amore per la lingua e la cultura polacca. Scherzando, diceva di se stesso che era “un ebreo nonostante la madre cattolica e il padre polacco”.

I Chodasevic: Felician Ivanovic, Sofia Jakovlevna, Vladislav e Michail, anni 1890.

Nacque quando la madre aveva già più di quarant’anni, ultimo di sei figli: era un bambino di salute cagionevole e un interminabile susseguirsi di malattie ne segnò la difficile esistenza. “Sparuto, verdastro col viso cadaverico, l’espressione di un serpente dagli occhi verdi, mi pareva talvolta un giovinetto fuggito da una cripta dove aveva già cominciato a familiarizzare con i vermi: col pince-nez, i neri capelli spartiti in due ciocche con la riga al centro, la giacca grigia attillata sul petto altezzoso, ci sorprendeva sempre con la sua capacità di pungere se stesso e gli altri richiamando con questo modo di fare l’immagine di uno scorpione squamato” così lo descriveva con ironia Andrej Belij, suo amico e poeta simbolista.

Vladislav Chodasevič, caricatura del 1907

Al pari di Puškin, anche l’infanzia del piccolo Vladislav fu allietata dalla premurosa presenza di una balia. Ancora lattante, una bolla sulla lingua rendeva difficile la sua nutrizione e non si trovavano donne disposte ad allattarlo. Fu la contadina Elena Kuzyna a prendersi cura di lui materialmente ed affettivamente: un’altra Arina Rodionovna di puškiniana memoria, dal cui “latte assorbì l’amore tormentoso verso il paese dove era cresciuto” (Nikolaj Bogomolov)

Chodasevič amò profondamente quella donna e le dedicò una delle sue poesie più toccanti.

Non dalla madre ma da una contadina di Tula

Non dalla madre ma dalla contadina di Tula

Elena Kuzyna sono stato nutrito. Ella

mi scaldava le fasce sul letto, di notte

mi faceva il segno della croce contro gli incubi.

a

Non conosceva le favole e nemmeno cantava

ma aveva sempre per me

nel recondito baule tappezzato di lana bianca

ora un panpepato di Vjazma ora un cavallino di menta.

a

Non mi ha insegnato preghiere

ma mi ha donato tutto fino in fondo:

la sua amara maternità

e semplicemente quello che le era caro.

a

Soltanto una volta, quando sono caduto dalla finestra

ma sono rimasto vivo (come ricordo bene quel giorno!),

una candela da due soldi per la miracolosa salvezza

ha acceso sotto l’icona di Iver*.

a

Ed ecco, Russia, “potenza rimbombante”,

suggendo i suoi capezzoli con le labbra,

ho assorbito il doloroso diritto

di amarti e di maledirti.

a

In quell’impresa leale, in quella gioia del canto

al cui servizio sono in ogni istante,

il mio maestro – è il tuo genio prodigioso

e il mestiere – la tua incantevole lingua.

a

E dinanzi ai tuoi deboli figli

talvolta ancora posso essere fiero

che questa lingua, ereditata dai secoli,

custodisco con più amore e più gelosia… 

a

Volano gli anni. Non voglio un futuro,

il passato si è fatto cenere nell’animo

ma è viva ancora la recondita gioia

che anche per me c’è un rifugio:

a

là dove nel cuore divorato dai vermi,

serbando un amore perenne per me,

dorme accanto agli ospiti dello zar, di Chodynka**

Elena Kuzyna, la mia balia.

1922

*L’icona della Madre di Dio d’Iver, una delle più venerate dagli ortodossi, protegge i fedeli da disgrazie, tentazioni, calamità.

**il campo di Chodynka a nord di Mosca è tristemente conosciuto per la ressa scatenatasi il 30 maggio del 1896 durante le celebrazioni dell’incoronazione dello zar Nicola II nel corso della quale morirono circa 1400 persone.

Nel 1904 il giovane Chodasevič si iscrisse all’Università di Mosca alla facoltà di giurisprudenza che, però, lasciò dopo appena un anno per seguire lo studio della storia e della filosofia. Ma la letteratura lo attirava più di ogni cosa e così Chodasevič abbandonò definitivamente l’università per dedicarsi totalmente alla letteratura. “Avevo vent’anni. Vivevo a Mosca, scrivevo poesie decadenti e non mi meravigliavo di niente, preferendo meravigliare gli altri”.

Nel 1905 Chodasevič si sposò con Marina Ryndina, una donna ricca, “bionda, alta, bella e stravagante […] Era bellissima quando passava per la via Kuznezkij Most nella sua carrozza appoggiata ai cuscini di velluto. Delle sue qualità d’animo, però, Vladja parlava poco” (dalle memorie di Anna Čulkova, seconda moglie del poeta). Il loro matrimonio finì nel 1907, lasciando alla letteratura alcune poesie dedicate a Marina, che entrarono a far parte della prima raccolta di versi “Giovinezza” pubblicata nel 1908.  Erano poesie simboliste piene di non detti, insinuazioni, immagini misteriose.

Anelli

Ti saluto con un inchino,

ti restituisco in silenzio l’anello.

Con insistente gemito soltanto la sera

ti chiama alla porta.

Alexandr Golovin “Ritratto di Marina Makovskaja (Ryndina)” 1912

a

Te ne vai per la via notturna,

senza temere, senza tremare, senza guardare.

Ti sei affidata ad un dio oscuro?

Non prendi la mia torcia?

a

Ti saluterò solo con un inchino.

S’è incattivito il tuo cuore!..

Ah, nella chiesa con lo scampanellio mattutino

si celebra il mio dolore.

1907

Solo, tra le anse dei fiumi

e i richiami delle tardive gru,

oggi ho imparato di nuovo

la saggezza dei campi silenti.

a

E si sono fatti più misteriosi, più severi i pensieri

e più timoroso il fruscio delle canne.

Il cupo fiume seppellisce nel letto sabbioso

la foglia caduta.

1906

Gli anni tra le due rivoluzioni furono per lui tempestosi ed instabili, segnati da entusiasmi e depressioni, dalla morte dei genitori, dall’infelice relazione con Evgenija Muratova ma, allo stesso tempo, assai produttivi: Chodasevič diventò un letterato professionista che si guadagnava da vivere con le sue pubblicazioni. Nel 1914 uscirono su varie riviste alcuni suoi articoli di critica e un nutrito numero di traduzioni di liriche polacche ed ebraiche nonché la sua seconda raccolta di versi “La casetta felice” che, nonostante fosse dedicata all’attuale moglie, conteneva una serie di poesie che rievocavano i giorni felici passati in Italia con Evgenija Muratova, “la zarina”. Si erano conosciuti già in Russia ma il loro amore sbocciò a Venezia, dove Chodasevič si era recato per curare la tubercolosi. Le poesie di quel periodo, ispirate dalla Muratova, trasmettono con il ritmo e l’intonazione lo stato d’animo del poeta che visse con lei una felice, seppur breve, storia d’amore nella cornice dei meravigliosi paesaggi italiani.

La serenità

È dolce vivere, zarina, nel tuo potere,

tra palme, ciliegi, bizzarrie.

Sei come la spuma sul calice d’Asti,

sei un trasparente smeraldo del cielo.

a

Il giorno passerà e nasconderà nella foschia dell’afa

i pigri tratti abbronzati –

la calma sera silenziosa e serena

getta nel mare fiori azzurri.

a

Là, in basso, una stella si frantuma nella schiuma,

là, in alto, si profila scuro un arbusto assonnato.

Per le diafane esalazioni del mare

sono salati gli angoli della bocca rosata.

a

L’animo non teme la separazione –

il saggio dono degli dei in festa.

Pace a te, sacro splendore

delle stellate serate ligure.

1911

Evgenija Muratova 1906

La passeggiata

Che bello che in questo mondo

esistano notti magiche,

lo scricchiolio cadenzato degli alti pini,

l’odore di timo e di camomilla

e la luna.

a

Che bello che in questo mondo

esistano ancora i capricci del cuore,

che la zarina, benché non mi ami,

permette direttamente sulle labbra

di baciare.

a

Che bello che, come fossero ali

su un argenteo cammino,

s’è disteso come una delicata ombra

e sventola e si placa

il nastro nero.

a

Che bello pensare con un sorriso

che la zarina (benché non mi ami!)

non dimenticherà la notte al chiaro di luna,

né me né i baci –

mai!

1910

Anna Čulkova

Nel 1917 Chodasevič accolse con speranza la rivoluzione bolscevica ma capì subito che avrebbe dovuto rinunciare all’attività letteraria. “Alla fine del 1917 si impadronì di me un pensiero dal quale in seguito mi staccai ma che mi pare ancora corretto… ero pienamente convinto che un’attività letteraria sotto i bolscevichi fosse impossibile. Presi la decisione di scrivere solo per me… Mi proposi di entrare al servizio dei sovietici.” (V. Chodasevič “Zakonodatel’”). Dunque come molti altri intellettuali (Blok, Mandel’štam etc.) tentò una convivenza che, però, si rivelò praticamente da subito impossibile. “Noi ci sforzavamo di far passare il repertorio classico… i comunisti si sforzavano di sostituirlo con quello rivoluzionario, che non esisteva” (Chodasevič “Belij coridor”). Chodasevič passò insieme ad Anna l’inverno del 1918-1919 in uno scantinato a Pietrogrado “in una stanza, riscaldata grazie ad una finestra aperta su una cucina – non sull’Europa”.

Lungo la via del grano

Va il seminatore lungo solchi ritti.

Suo padre e suo nonno hanno seguito la stessa via.

a

Brilla dorato nella sua mano il grano

ma deve cadere nella nera terra.

a

E, laddove il verme cieco traccia il passaggio,

morirà nell’ora predestinata e germoglierà.

a

Così anche l’anima mia segue la via del grano:

dopo essere scesa nelle tenebre, morirà – e risusciterà.

a

Anche tu, paese mio, e tu, suo popolo,

morirai e risusciterai, attraversando quest’anno

a

poiché ci è data una sola saggezza:

tutto ciò che è vivo deve seguire la via del grano.

1917

Stanze

Ormai i capelli canuti sulle tempie

nascondo a malapena con una nera ciocca

e si ferma il cuore come nella morsa

per un soverchio bicchiere di tè.

a

Mi pesa ormai il lungo lavoro

e non celano l’incanto

né i frutti troppo speziati della conoscenza

né gli abbracci soffocanti delle donne.

a

Con freddezza guardo io adesso

la noia della futura gloria…

Al contrario parole come fiore, bambino, animale –

mi vengono sempre più spesso sulle labbra.

a

Distratto ascolto ogni tanto

i vani sproloqui dei poeti

ma mi colma l’anima di dolce pienezza

il seme che, muto, germoglia.

1918

Senza parole

Tu mi hai mostrato senza parole,

com’è venuta bene e pulita

la cucitura da te fatta

lungo il bordo della batista bianca.

a

E ho pensato: la mia vita,

come filo tra le dita di Dio

lungo la sottile stoffa dell’esistenza,

corre come questi punti.

a

Ora si vede, ora è nascosto il punto,

passando ora alla vita ora alla morte…

e, sorridendo, il tuo fazzoletto

io ho rigirato, cara.

1918

Jurij Annenkov “Ritratto di Chodasevič 1921

Nel 1920 Chodasevič pubblicò la raccolta “Lungo la via del grano” nella quale prese definitivamente le distanze dalla rivoluzione e, già nel 1921, davanti al lettore prese corpo un Chodasevič mutato, un poeta neoclassico, seguace della tradizione puškiniana “un maestro severo senza fronzoli e artificiose inutili espressioni”, come lo definì il critico letterario Zinaida Šiachovskaja. “Il libro è composto per intero da poesie scritte nel momento cruciale della storia russa e mondiale. Tutti concordano che questo libro ha rivelato per la prima volta un grande poeta ed egli stesso, essenzialmente, ha scoperto il cammino poetico in cui si è riconosciuto” scriveva a sua volta il critico Sergej Bočarov. In seguito alla morte di Blok e Gumilëv e al suo crescente isolamento, per sfuggire al calvario preannunciato di altri scrittori russi, decise di lasciare il paese insieme alla nuova compagna, la scrittrice Nina Berberova, ignaro che sarebbe stato per sempre. Prima di partire nel 1922 riuscì a mandare in stampa la sua quarta raccolta di liriche “La lira pesante” che vide la luce quando Chodasevič era ormai all’estero.

Il tappetto

Il tappetto della tintura di iodio!

Quanto presto sei marcito!

Così impercettibilmente anche l’anima

brucia e corrode il corpo.

1921

Fa’ un passo, fa’ un salto,

fa’ un volo, fa’ – quel che vuoi –

basta che rimbalzi: come una pietra dalla fionda,

come una stella che cade nella notte…

sei stato tu a perdere – allora cerca…

Dio solo sa cosa brontoli

cercando il pence-nez o le chiavi.

1921

Vladislav Chodasevič 1922
Nina Berberova anni ’20

Si stendeva fuori il crepuscolo.

Da qualche parte sotto il tetto sbatté una finestra.

Balenò la luce, si agitò la tenda,

un’ombra veloce precipitò dal muro –

beato chi cade a testa ingiù:

il mondo per lui seppure per un attimo – è diverso.

Saarow – 23 dicembre 1922

Stanze

A volte pensavo: per un attimo

darei un anno, due o la vita intera…

Il furfante non conosce il valore

del denaro non sudato.

a

Altri giorni sono giunti ora.

Si stendono le rughe intorno alle labbra,

i miei minuti hanno più valore,

saggio, severo e avaro sono diventato.

a

Vedo molto, so molto,

incanutisce il mio capo,

avverto il movimento delle stelle

e sento come cresce l’erba.

a

Ed ogni sussurro a voi impercettibile

ed ogni luce a voi invisibile

arricchisce la vaga esperienza

di Psiche che cade nel delirio.

a

Ora non permetto che mi offendano:

invecchio, ingobbisco – ma accumulo

tutto ciò che odio con tanta dolcezza

e amo con tanta causticità.

1922

Lasciandosi alle spalle la Russia sovietica in un treno merci, Chodasevič lesse i versi sottostanti alla compagna, versi pieni di amore per il paese che era costretto ad abbandonare, portando con sé solo pochi libri di poesia russa (per la precisione la raccolta dell’opera completa di Puškin in otto tomi edita nel 1903) ossia tutto ciò che per lui simboleggiava la patria, come un tempo gli Ebrei portavano con sé i rotoli della Torà. Solo che in questo caso non è la voce di Dio, quella che guida il poeta nell’esilio ma il sussurro di Puškin.

Sono nato a Mosca. Sul tetto polacco

non ho visto fumo

e amuleti con la terra natia

mio padre non mi ha lasciato in eredità.

a

Per la Russia – sono un figliastro, per la Polonia – invece,

io stesso non so cosa sono per la Polonia.

Ma: otto piccoli tomi, non di più –

e in loro c’è tutta la mia patria.

a

Sta a voi –  o mettere il collo sotto il giogo

o vivere in esilio, in pena.

Ma io porto via la mia Russia

in una sacca da viaggio.

a

Voi avete banalmente bisogno delle ceneri della patria

mentre io dovunque sia – mi sussurrano

le sante labbra del Negro

di un paese straordinario.

Saarow -25 aprile 1923

Il 30 ottobre del 1922 Chodasevič e la Berberova si stabilirono a Berlino dove, insieme a Gorkij e Belij, Chodasevič fondò la rivista letteraria “Beseda” che accoglieva i lavori degli scrittori immigrati e non, a cui egli stesso contribuì con articoli su Pukšin. A causa della precarietà della situazione in Germania, la coppia iniziò un doloroso pellegrinaggio da un paese all’altro nella spasmodica ricerca di un modo per andare avanti. Vissero a Praga (dove conobbero Marina Cvetaeva e Roman Jakobson), in Italia, in Irlanda. “Qui non posso, non posso, non posso vivere e scrivere, là non posso, non posso, non posso scrivere e vivere” racconta la Berberova nelle sue memorie, ricordando il tormento del compagno, la struggente nostalgia che lo consumava e per la quale non esisteva cura come pure per i suoi malanni fisici che si aggravavano di anno in anno.

Chodasevič e la Berberova a Sorrento

Nel 1924 Nina e Vladislav si stabilirono a Sorrento nella villa di Maxim Gorkij. In Italia vissero un periodo relativamente tranquillo e felice in compagnia del famoso scrittore e grande amico che li accolse con tutto il cuore. Un anno dopo presero la sofferta decisione di trasferirsi a Parigi dove piombò loro addosso tutto il peso dell’esilio e della miseria: “Talora piangeva, torcendosi le mani; io temevo il presente e in quelle notti non osavo neppure pensare al futuro”, racconta la Berberova.  Nella poesia “Davanti allo specchio” Chodasevič paragona la sua esistenza nella capitale francese all’inferno: non l’inferno dantesco, dove Virgilio fa da guida al Sommo Poeta ma un inferno di vuoto e solitudine nel quale il poeta fatica a riconoscersi.

Davanti allo specchio

                                                            Nel mezzo del cammin di nostra vita

Io, io, io! Che parola selvaggia!

È possibile che quello – sia io?

Possibile che la mamma mi amava così,

giallo – grigio, semicanuto

e onnisciente come un serpente?

a

Possibile che il bimbo che nell’estate

a Ostanchino ballava nei balli delle dacie –

sia io, quello che con ogni risposta

incute ai giovani poeti

ripugnanza, rabbia e paura?

a

Possibile che quello che nelle dispute di mezzanotte

ci metteva tutta la foga infantile –

sia proprio io, lo stesso che

in risposta a tragici discorsi

ha imparato a tacere e scherzare?

a

Ebbene – è sempre così nel mezzo

del fatale cammino terrestre:

da una causa insignificante – vai alla causa

ma se guardi con attenzione – ti sei perso nel deserto

e non trovi le tue stesse orme.

a

Sì, non è stata una pantera con i suoi salti

che mi ha cacciato nella soffitta parigina.

E non c’è Virgilio alle spalle –

c’è soltanto la solitudine – nella cornice

del vetro che dice la verità.

Luglio 1924

Dopo diverse collaborazioni con le riviste “Sovremennije zapiski” e “Dni” nel 1927 Chodasevič divenne critico in pianta stabile di “Vozroždenije”, cosa che gli consentì una certa tranquillità economica e la possibilità di scrivere, uscendo almeno in parte dall’isolamento in cui era precipitato. Riallacciò rapporti con gli scrittori Remizov, Bunin, i Merežkovskij e il circolo “Zeljonaja lampa” (Lampada verde) da loro fondato. Ma lo infastidivano le lotte meschine tra gli emigranti russi, in mezzo ai quali continuava a sentirsi estraneo e tormentato: ”Vivo e scrivo per me, senza spendere altre energie vitali. Com’è vero Dio, una buona poesia è più necessaria e più gradita al Signore di 355 (356) sedute della “Lampada verde””. Egli era in quel momento una delle voci più alte della letteratura dell’immigrazione, pur essendo profondamente convinto della sua invitabile decadenza. Nel suo articolo critico del 1933 “Literatura v izgranii” (“La letteratura al bando”) Chodasevič scriveva: “Gli autori hanno portato dalla Russia una sfilza pronta di immagini e di idee – le stesse che tempo fa avevano portato loro una certa notorietà. Il loro operato in esilio seguì quella strada senza apportare nessun rinnovamento. Sparse maledizioni contro i bolscevichi e ricordi idilliaci del benessere perduto non potevano certo formare un nuovo contenuto di idee che riflettessero gli avvenimenti attuali. La letteratura dell’emigrazione è priva di idee perché non è riuscita a scoprire in sé stessa quel pathos che le potesse conferire nuovi sentimenti, nuove idee e insieme ad essi nuove forme letterarie. Non è riuscita a sopravvivere pienamente alla sua tragedia come se cercasse il confort in mezzo alla catastrofe, la calma nella tempesta – e per questo ha dovuto pagare caro: è stata pervasa dallo spirito del benessere, della benevolenza, dell’autocompiacimento ossia – dallo spirito borghese”.

Vladislav e Olga 1936

Chodasevič viveva in uno stato di continua nevrosi e i suoi rapporti con la Berberova si complicavano di giorno in giorno: nel 1932 ella lo abbandonò, mantenendo comunque con lui ottimi rapporti. Poco dopo il poeta, incapace di stare solo, si sposò con Olga Margolina. Al contempo il suo isolamento nei confronti del mondo esterno diventava sempre più feroce al limite della malattia psichica. Nel 1939 si aggravarono le condizioni di salute del poeta: “Stanotte ho odiato tutti. Tutti mi erano estranei. Chi non è stato qui su questo letto, come me non ha dormito le notti, come me non ha sofferto, non ha vissuto queste ore, quello è nessuno per me, mi è estraneo. Soltanto quello è mio fratello, chi come me ha vissuto questo tormento”. Ridotto ad un cadavere vivente, sfinito fisicamente e psicologicamente, Chodasevič morì il 14 giugno del 1939 in una clinica privata per un cancro al fegato poco prima che la seconda guerra mondiale dilagasse per tutta l’Europa, causando milioni di vittime tra le quali anche la sua ultima moglie che, deportata ad Auschwitz, non ne fece più ritorno.

Vladimir Nabokov in un saggio del 1939 dedicato a Vladislav Chodasevič scrisse:

È il poeta più grande dei nostri tempi, discendente di Puškin per parte di Tjutcev, rimarrà l’orgoglio della poesia russa finché ne sarà vivo l’ultimo ricordo”.

Bibliografia:

Nina Berberova, “Il corsivo è mio”, 1989 Adelphi

Nilo Pucci “Il trionfo della morte” in “Necropoli”, 1985 Adelphi

One Comment

  • Giorgio Linguaglossa

    Come al solito Donata De Bartolomeo e Kamila Gajazova hanno compiuto un nuovo miracolo: fornire alla lingua italiana delle poesie sublimi di Chodasevich.
    Grazie dunque alle due traduttrici. Un saluto

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