IOSIF BRODSKIJ E IL NATALE
“Qualsiasi dottrina religiosa ha una propria, potremmo dire, storica sfacciataggine. Ecco, esiste una categoria “prima della nostra era”, cioè “prima della nascita di Cristo”. Cosa include questo “prima”? Non solo, diremmo Cesare Augusto e i suoi predecessori ma abbraccia quasi tutto il tempo che racchiude in sé le ere geologiche e sfocia con la sua fine praticamente nell’astronomia. Questo mi ha sempre molto colpito. Per cosa è straordinario il Natale? Perché qui abbiamo a che fare col calcolo della vita oppure, quanto meno, con l’esistenza di un determinato individuo nella coscienza individuale.”
Iosif Brodskij
Iosif Brodskij ha scritto ventitré poesie dedicate al Natale e al Capodanno. Di solito vengono accorpate in un unico “Ciclo di Natale” ma, in base alla data di composizione, possono essere divise in due periodi. Il primo, più antico, sovietico (1961-1973) nel quale ci sono meno poesie, sette in tutto; il secondo, americano (1987-1995) che comprende il corpus essenziale dei versi di questo ciclo di cui non esiste nulla di analogo nella poesia russa.
Nel primo risuonano le sofferenze personali e le emozioni di Brodskij, il suo coinvolgimento nella vita, nella quale c’è tanta amarezza, solitudine e vuoto. Nel secondo spira dai versi una fredda e composta antichità, non c’è spazio per le emozioni, si avverte quasi un isolamento come se il poeta guardasse al fluire degli eventi nelle vesti di un silenzioso ed estraneo osservatore. Nel primo si avverte maggiormente quanto avviene attorno ed in prossimità del Natale e del Capodanno, nel secondo si parla in prevalenza del Natale in sé, del miracolo della comparsa sulla terra dell’Uomo-Dio. Nei versi più antichi – nostalgia, tristezza, un’atmosfera pesante, che trasuda l’attesa del peggio. Nei successivi – il tran-tran quotidiano sfuma nell’ombra, smorzandosi e quasi nascondendosi nell’avvenimento che si è compiuto nella lontana Betlemme. Il tema dell’eternità diventa determinante.
Si racconta che il ciclo sarebbe il frutto di una discussione con Anna Achmatova su come si potesse mettere in versi la storia biblica, rendendola comprensibile all’uomo comune senza, tuttavia, che tali versi risultassero inferiori per qualità a “La stella di Natale” di Pasternak.
Su questo punto, però, Brodskij racconta un’altra storia: “Vi racconterò come tutto è iniziato. Ho scritto i primi versi di Natale a Komarovo. Vivevo nella dacia di qualcuno, forse dell’accademico Berg. E lì da un giornaletto polacco ho ritagliato un’illustrazione. Era l’Adorazione dei Magi, non ne ricordo l’autore. L’attaccai sulla stufa e spesso la guardavo di sera. Per inciso, andò a fuoco questa illustrazione, andò a fuoco la stufa e la stessa dacia. Ma allora io la guardavo, la guardavo e decisi di scrivere una poesia proprio su questo stesso soggetto. Quindi il tutto ha avuto inizio non da sentimenti religiosi né da Pasternak o da Elliot ma proprio da una illustrazione”.
Se dobbiamo credere che Pasternak non era stato l’occulto ispiratore del ciclo, di contro sappiamo per certo che un’enorme influenza aveva avuto sulla crescita culturale del giovane Brodskij la conoscenza della poesia inglese. Nel 1965 era stata pubblicata la sua traduzione del ciclo “La corona” del poeta inglese John Donne del XVII secolo, composto da sette sonetti sulla storia evangelica basati sulle sue pietre miliari: l’Annunciazione, il Natale, il Tempio, la Crocifissione, la Resurrezione, l’Ascensione.
Il “Ciclo di Natale” si sviluppò a poco a poco lungo tutta la vita del poeta: ogni anno una poesia eccetto una interruzione di più di dieci anni, compresa tra l’abbandono dell’URSS e l’inizio della vita negli Stati Uniti. E tutte su un unico tema: così il ciclo racconta il poeta stesso, le tappe della sua formazione, gli umori e i pensieri. Si inizia con “Romanza di Natale” del 1961 e si conclude con “Fuga in Egitto” del 1995, contrassegnata dal numero ”2” per distinguerla dall’omonima poesia composta il 28 dicembre del 1988.
Andiamo ad esaminare insieme alcune di queste composizioni.
Senza ombra di dubbio tra i componimenti del primo periodo un posto particolare spetta alla poesia “Capodanno nella dacia di Kanatchik”. La dacia Kanatchik – è l’ospedale psichiatrico di Mosca, meglio noto al popolo col nome di Kashchenko.
Già nel 1964 Brodskij aveva conosciuto questo inferno: ricordava con orrore come là lo imbottivano di tranquillanti, poi lo svegliavano, lo gettavano in una vasca piena di acqua gelata, lo avvolgevano in lenzuola bagnate e lo mettevano tra due caloriferi. Le lenzuola si seccavano e si attaccavano alla pelle. Una vera tortura. Un uomo può essere crocifisso tra due caloriferi e al tempo stesso assomigliare ad un’oca di Natale. L’ospedale psichiatrico è peggio del carcere, poiché nel carcere c’è un fine pena, vicino o lontano, mentre nell’ospedale psichiatrico non c’è nessun finale. L’uomo è completamente privo di diritti e non ha alcuna speranza di uscirne. Il poeta raccontò in seguito che per lui il momento peggiore della giornata era la sera. Allora tutto il bianco che lo circondava (dalle pareti dell’ospedale, alle suppellettili, ai camici e alle mascherine indossati dal personale medico) si trasformava in una sensazione di autentico orrore e che in quei momenti aveva davvero temuto più volte di perdere completamente la ragione.
Ad una prima lettura la poesia appare come una ninnananna, il monologo di un paziente che cerca di fuggire dalla realtà, di nascondere la testa per sottrarsi al dolore che questa realtà infligge. Ma c’è anche un altro significato: l’oca di Natale è il poeta stesso, una vittima pronta per il tavolo imbandito per la festa. E in questo è simile al Salvatore.
CAPODANNO NELLA DACIA DI KANATCHIK
Dormi, oca di Natale,
girata verso la parete,
col buio sul dorso,
accendendo, come scintille di una collana,
il tuo cristallino nel sogno.
Né i Magi, né l’asinello,
né la stella, né la tormenta
che ha salvato dalla morte il Bambino,
allargandosi a raggiera come cerchi
battuti dal remo.
Allargandosi a raggera come un nimbo
in un fitto, rumoroso bosco
verso i bianchi abitucci delle ninfe
sia in inverno che in primavera
e tagliare col biancore
i nastri delle linfe rigonfie
dietro la parete dell’ospedale.
Dormi, oca di Natale.
Addormentati il prima possibile.
Non temere i sogni
tra due caloriferi,
tra le mele e le prugne
con le due ali spiegate
e la testa nel sedano.
Questo è il canto di un grillo,
qui sul rosso battiscopa
come il canto di un grande arco,
giacché i suoni aumentano
come lo scintillio della pupilla
attraverso la parete dell’ospedale.
“Dormi, oca di Natale,
perché ho paura del becco – vicino alla parete
tra nuvole di lenzuola,
qua vicino al battiscopa
dove crescono i gorgheggi,
dove io canto ad alta voce
questa mia canzone”.
Il nimbo manda cerchi
a guisa di tempesta
che, uno dopo l’altro,
duemila anni più avanti,
raggiungono la mente
come in un doppio inverno:
tipo un confine di colline invernale
dove il re è – l’insulina.
Qui, nel sesto reparto,*
accampata sul terribile alloggio,
nel bianco regno di volti nascosti,
la notte si fa bianca, come una chiave
assieme al primario,
orrore dei corpi – dagli ospedali,
dalle nuvole – dalle orbite,
dagli insetti – dagli uccelli.
gennaio 1964
* Chiaro rimando all’omonimo racconto di Cechov, col quale Brodskij condivideva la valutazione assolutamente negativa sul livello di sviluppo della psichiatria in Russia. (NdT)
La poesia “Romanza di Natale”, con la quale si apre il ciclo, non è così angosciosa come la precedente ma è pur sempre colma di disperazione, di dolore, di assenza di speranze poiché nel paese, nel quale il poeta viveva, non c’erano né il Natale, soppiantato dalla frenesia del Capodanno, né Dio che era stato interamente sostituito da un ateismo che non offriva spiragli di cambiamento.
La poesia è piena di immagini, prosaicità, di oscurità che vanno interpretate.
Quale capitale viene qui descritta – la prima o la seconda o forse al tempo stessa né l’una né l’altra? Cosa si intende con “l’inesauribile barchetta notturna” – la barchetta sulla guglia dell’Ammiragliato di Leningrado? Oppure è la Luna, cui rimanderebbero la metafora sull’asociale fanale notturno, il treno delle giovani coppie in luna di miele e la forma rotonda del dolce natalizio? Cos’è il “treno nuziale di mezzanotte”? Il “Freccia Rossa”, cioè quel treno notturno che il dieci giugno del 1931 aveva collegato per la prima volta in appena nove ore le due capitali, fortemente voluto da Stalin che odiava i viaggi in aereo? E la “triste scala gialla” – è la scala della Sinagoga? La poesia è un vero rompicapo.
In tutto e in tutti i personaggi c’è tristezza: il cantore è triste, lo spazzino è triste, lo straniero fa una foto triste. E il Natale aumenta soltanto la tristezza e la nostalgia. Alla fine il poeta sembra dare una speranza ma è anch’essa illusoria come tutto il resto: l’eco di tale illusorietà risuona nelle parole dell’ultima strofa, in quel “come se” ripetuto per tre volte. Il triste finale di un triste Natale, trasformato in Capodanno. Se nella vita reale di epoca sovietica alcuni elementi propri della festività – l’albero, i regali, in un certo senso il menù (l’oca di Natale) – erano stati traslati alla vigilia del nuovo anno, nelle composizioni di Brodskij fino alla seconda metà degli anni ’60 essi si conservano come elementi dei festeggiamenti per il Capodanno ma viene loro dato il nome di Natale, mostrandone l’intrinseco significato religioso: “Prima di tutto questa è una festività cronologica, legata ad una precisa realtà, allo scorrere del tempo. Alla fine, cos’è il Natale? Il giorno della nascita dell’Uomo-Dio. E l’umanità la festeggia con non meno naturalezza della propria. (I.B.)”
La poesia è dedicata all’amico di tutta la vita, il poeta Evgenij Rejn, nato proprio il ventotto dicembre: una volta Brodskij gli aveva promesso che gli avrebbe regalato una poesia per ogni compleanno. Ma, a proposito di compleanni, aveva pure detto: “Dai ventiquattro ai venticinque anni, da quando cioè ho iniziato a scrivere versi, ho deciso di scrivere ogni anno una poesia per Lui (Gesù Cristo) come fosse un parente. Ho mancato a volte questo appuntamento a causa di qualche incidente di percorso”.
ROMANZA DI NATALE
Ad Evgenij Rejn, con affetto
Galleggia in una inspiegabile angoscia
in mezzo ad un rialzamento di mattoni
un’ineusaribile barchetta notturna
dal Giardino di Alessandro,
un asociale fanale notturno
simile ad una rosa gialla
sulla testa dei suoi cari,
ai piedi dei passanti.
Galleggia in una inspiegabile angoscia
il coro d’api di sonnambuli, di ubriaconi.
Nella notturna capitale una fotografia
ha tristemente scattato uno straniero
e imbocca l’Ordynka*
un taxi con passeggeri malati
e i morti stanno abbracciati
alle palazzine.
Galleggia in una inspiegabile angoscia
lungo la capitale un triste cantore,
sta vicino al chiosco del kerosene
uno spazzino triste dal viso paffuto,
si affretta lungo una scialba strada
un amante vecchio e bello.
Galleggia in una inspiegabile angoscia
Il treno nuziale di mezzanotte.
Galleggia nella foschia di Zamoskvorechye**
un occasionale nuotatore in disgrazia,
si aggira un accento ebraico
sulla triste scala gialla
e dall’amore fino alla non allegria
alla vigilia di Capodanno, di domenica***
galleggia una bella donna degna di nota,
senza spiegare la sua malinconia.
Galleggia negli occhi la sera fredda,
tremano sul vagone i fiocchi di neve,
un freddo vento, un vento pallido
avvolge i palmi arrossati delle mani
e scorre il miele delle luci serali
e profuma di dolce halvà****
e la vigilia porta una torta notturna
sul capo.
Il tuo Anno Nuovo lungo un’onda
blu scuro in mezzo al mare urbano
galleggia in una inspiegabile tristezza
come se la vita ricomincerà di nuovo,
come se ci saranno la luce e la gloria,
il giorno fortunato e abbondanza di pane,
come se la vita oscillerà a destra,
dopo aver oscillato a sinistra.
28 dicembre 1961
*Ordynka è una via centrale di Mosca dove all’epoca viveva la famiglia Ardov, presso la quale soggiornava abitualmente Anna Achmatova e dove, agli inizi degli anni ’60, si fermò anche Brodskij. (NdT)
**Quartiere centrale di Mosca non lontano dal Cremlino dove si tengono esibizioni musicali che spaziano dal genere classico agli spettacoli di musica alternativa. (NdT)
***Quell’anno il 28 dicembre capitò di domenica. (NdT)
****Dolce di origine orientale a base di arachidi e semi di girasole. (NdT)
La poesia intitolata “24 dicembre 1971” è la più famosa di questo primo ciclo, che abbiamo chiamato sovietico, e offre al lettore qualche spiraglio di salvezza poiché alla fine non risuona più l’illusorio “come se” ma l’autentica consapevolezza del Bambino e dello Spirito Santo del proprio essere e nel cielo splende l’unica, vera Stella. Si comincia con un ricordo personale: non lontano dalla casa dove abitava la famiglia Brodskij, la famosa via Pestelja dell’allora Leningrado, si trovavano alcuni grandi negozi di generi alimentari in cui, nei giorni prenatalizi, si poteva osservare il quadretto descritto nei versi.
Al pari di molti pittori, Brodskij raffigura qui il Natale non nella Giudea storica ma nel proprio contesto spazio/temporale a lui noto con personaggi a lui familiari.
24 dicembre 1971
V.S.*
A Natale siamo tutti un po’ magi.
Nei negozi alimentari fanghiglia e ressa.
Per una lattina di halvà al caffè
assedia il bancone una folla
carica di un mucchio di fagotti:
ognuno è di per sé re e cammello.
s
Reti, borse, sporte, stuoie,
cappelli, cravatte di sghimbescio,
odore di vodka, di aghi di pino e di merluzzo,
di mandarini, di cannella e mele.
Caos di volti e per via della neve fitta
non si vede il sentiero verso Betlemme.
a
E i fattorini di doni modesti
si fiondano sui mezzi di trasporto, assaltano le porte,
spariscono nei vuoti dei cortili
pur sapendo che la capanna è vuota:
non ci sono animali, mangiatoia, non c’è Quella
sulla Quale c’è una aureola dorata.
a
Vuoto. Ma se ci rifletti su,
vedi all’improvviso come una luce dal nulla.
Avesse saputo Erode che più lui era forte
tanto più era sicura l’ineluttabilità del miracolo.
La costanza di questa affinità –
è il meccanismo principale del Natale.
a
Proprio questo oggi festeggiamo ovunque,
quel Suo arrivo, affiancando
tutti i tavoli. E se pure non c’è ancora
bisogno della stella, già la buona volontà
è visibile da lontano nelle persone
e i pastori hanno acceso i falò.
a
Tanta neve: non fumano ma risuonano come trombe
i comignoli dei tetti. Tutti i volti, come macchie.
Erode beve. Le donne nascondono i bambini.
Chi viene – non lo capisce nessuno:
noi non conosciamo i segni premonitori e i cuori
possono di primo impatto non riconoscere il forestiero.
a
Ma quando sullo spiffero della porta
dalla fitta nebbia notturna
appare una figura con lo scialle,
avverti senza vergogna dentro di te
sia il Bambino che lo Spirito Santo;
alzi gli occhi al cielo e vedi – c’è la stella.
1972
* La poesia è dedicata a Veronique Schiltz, una delle più care amiche di Brodskij che aveva tradotto in francese numerosi autori russi tra i quali lo stesso Brodskij. A lei erano state dedicate anche le poesie “Canzone d’ottobre” e “La freccia persiana”. (NdT)
Come è stato già detto, nei versi cosiddetti “americani” cambiano completamente sia il punto di vista del poeta sia l’armamentario immaginifico di cui egli si serve. Ad esempio in “La ninnananna” parla una figura femminile, una madre (Maria?) che ha partorito un figlio (Gesù?) a cui sembra quasi suggerire istruzioni su come affrontare il difficile, doloroso viaggio che lo condurrà a quella montagna su cui si staglia la croce.
Il tema principale è il vagabondare dell’uomo (chiaro riferimento alla propria personale vicenda esistenziale) e il desiderio di sfuggire al deserto dell’insensibilità umana.
NINNANANNA
Ti ho partorito nel deserto
non a caso.
Perché non vi è in esso
traccia di un re.
E’ inutile cercarti lì,
in inverno c’è
più freddo che spazio.
Alcuni hanno giocattoli, un pallone,
una casa alta.
Tu per i tuoi giochi infantili
hai tutta la sabbia.
Abituati, figliolo, al deserto
come al destino.
Dovunque tu sia, d’ora in poi
dovrai viverci.
Io ti ho allattato al petto.
Ma il deserto ha abituato lo sguardo
al vuoto – ne è colmo.
A quella stella – nella terribile
distanza – in essa
lo splendore della tua fronte,
si sa, è più visibile.
Abituati, figliolo, al deserto
sotto i piedi,
oltre ad esso, non c’è
un’altra roccaforte.
Nel deserto il destino è a vista.
Ad una versta di distanza
vi riconosci facilmente il monte
per via della croce.
Ma si sa, lì non ci sono
umani sentieri.
È grande
e solitario, affinché
trascorrano i secoli.
Abituati, figliolo, al deserto
come un granello
al vento, sentendo che tu
non sei solo carne.
Abituati a convivere con questo mistero:
quelle sensazioni
ti torneranno utili, si sa, nel vuoto
sconfinato.
Non è peggiore di questo:
solo più lungo
e l’amore per te – è il segno
di un posto al suo interno.
Abituati al deserto, caro,
e alla stella
che vi riversa luce con tale
forza ovunque
così come fa ardere una lampada
all’ora tarda, ricordando il figlio,
colui che nel deserto
ci sta da più tempo di noi.
1992
“Fuga in Egitto (2)” è l’ultima poesia che Brodskij ha scritto in occasione del Natale.
Nel 1990 aveva sposato Maria Sozzani e il tre settembre del 1993 era nata la loro unica figlia Anna, così chiamata in onore di Anna Achmatova. Gli anni del matrimonio furono tra i più felici della sua vita ed appare, quindi, evidente che questi versi sono stati scritti per la “sua” Maria ed è altrettanto chiaro a chi egli si riferisca col ripetuto “loro tre”.
Nel disegnare l’antico quadro, Brodskij ricorre a rassicuranti immagini naturalistiche: “odore di paglia e stracci”, “Maria pregava”, “il bambino sonnecchiava” ecc. ma, accanto, si scaglia potente il tema di Erode, il motivo dell’eternità del male, dell’eterna minaccia della punizione. Eppure, nonostante le sofferenze e le pene, la protezione divina prende corpo nel fumo che volge non verso l’interno della grotta ma verso il suo ingresso per non disturbare la Sacra Famiglia. Il destino del bambino viene definito quasi come in una iconostasi in due squarci: c’è il bambino che sonnecchia ma c’è anche il silente Cristo adulto.
Tutto il quadro rimanda ad una sensazione di comodità: di sicuro nel momento in cui Brodskij scriveva questi versi, avvertiva tutto il calore della sua odierna vita familiare e desiderava ardentemente che questa sensazione si conservasse per sempre.
Invece quello fu il suo ultimo Natale.
FUGA IN EGITTO (2)
Nella grotta (sia come sia, è pur sempre un riparo!
Più affidabile della somma degli angoli retti!)
nella grotta loro tre stavano al caldo;
c’era odore di paglia e di stracci.
a
Il letto era di paglia.
Fuori la tempesta macinava la sabbia.
E, ricordando la macinatura,
nel dormiveglia si rigiravano il bue e l’asinello.
a
Maria pregava, il falò crepitava.
Giuseppe, aggrottando la fronte, guardava nel fuoco.
Il bambino, troppo piccolo
per fare alcunché, sonnecchiava.
a
Ancora un giorno alle spalle – con le sue
ansie, le paure, l’”aspetta, aspetta”
di Erode, che aveva spedito le truppe;
e l’eternità – di un giorno più prossima.
a
Erano sereni loro tre quella notte.
Il fumo si protendeva al vano dell’apertura
per non disturbarli. Soltanto l’asinello
nel sonno (o il bue) sospirò pesantemente.
a
La stella guardava attraverso la soglia.
L’unico tra loro, che poteva sapere
cosa significasse il suo sguardo,
era il bambino; ma egli taceva.
dicembre 1995
P. V. – Scusate la domanda personale: siete una persona religiosa, credente?
I. B. – Non so. A volte si, a volte no.
P.V. – Non di chiesa, questo è chiaro.
I. B. – Questo è poco ma sicuro.
P. V. – Non ortodosso e non cattolico. Forse una qualche variante di protestantesimo?
I. B. – Calvinismo…parlo di calvinismo – non certo per scherzo e nemmeno sul serio – perché secondo la dottrina calvinista l’uomo risponde di tutto a sé stesso. Qui egli è, in un certo senso il proprio Giudizio Universale. Io non ho la forza di perdonare me stesso. E, d’altra parte, chi potrebbe perdonarmi non risveglia in me particolare simpatia o stima. Quando ero più giovane, cercavo di venire a capo di tutto ciò. Ma ad una certa tappa ho compreso che io sono la somma delle mie azioni, dei miei atti e non la somma delle mie intenzioni.
Dal libro di Pëtr Vail’ “Iosif Brodskij. Poesie di Natale”, 1996
One Comment
Giorgio Linguaglossa
È un lavoro di eccezionale rilevanza questa poesia giovanile di Brodskij fatto dalle due appassionate traduttrici, Donata De Bartolomeo e la Kamila Gayazova, anche perché viene a colmare una grande lacuna della nostra distratta conoscenza di lettori della poesia del grande Iosif. Le note didascaliche, precise e illuminanti, ci consentono di penetrare meglio nei riferimenti del testo brodskijano.