MARINA CVETAEVA E ARSENIJ TARKOVSKIJ

“Mi sono lasciato scappare Marina, me la sono lasciata scappare. È colpa mia. Non ho compreso il suo carattere tragico. Non era semplice con lei. Beh, le avrei dato mezzo cuore. Ma lei voleva il cuore intero e pure il fegato e la milza! Pretendeva tutta la persona, fino in fondo…”

Arsenij Tarkovskij.

Sebbene gli ultimi anni della vita di Marina Cvetaeva siano stati analizzati a fondo, l’esatta data del suo incontro con Arsenij Tarkovskij non si trova da nessuna parte. E’ noto che occasione della loro conoscenza fu la traduzione da parte di Tarkovskij dei versi del poeta turkmeno Kemine.  Il titolo completo dell’opera è “Raccolta di canti e versi nella traduzione di Arsenij Tarkovskij con l’aggiunta di racconti popolari scelti sulla vita del celebre poeta”. L’accordo per l’edizione fu stipulato il 12 settembre del 1940 ed il libro uscì probabilmente il mese successivo.

La brutta copia di una lettera della Cvetaeva, indirizzata a Tarkovskij e appuntata nel quaderno di ottobre del 1940, fu ricopiata da Ariadna Efron, figlia primogenita della poetessa e di Sergej Jakovlevič Efron.

“…Caro com.(pagno) T.(arkovskij),

la Vostra traduzione è una meraviglia.  Cosa potete fare – quando siete Voi stesso?

Perché per un altro poeta potete tutto. Trovate (amate) – e le parole saranno vostre.

Presto Vi inviterò – una di queste sere – ad ascoltare versi (miei) di un libro futuro. Perciò datemi il vostro indirizzo affinché l’invito non se ne vada in giro – o non resti qui come questa lettera.

Vi pregherei molto di non mostrare a nessuno questa mia letterina, io sono una persona appartata e scrivo a Voi – a che vi servono gli altri? (mani ed occhi) e non dite a nessuno che presto, uno di questi giorni, sent(irete) le mie poesie, presto ci sarà da me una serata aperta ed allora verranno tutti. Ma adesso Vi chiamo da amica.

Ogni manoscritto – è indifeso. Io nella mia interezza – sono un manoscritto

M. C.”

La traduzione di Tarkovskij capitò alla Cvetaeva, probabilmente, tramite una sua intima conoscente, la traduttrice Nina Gerasimovna Berner Jakovleva che in gioventù aveva preso parte ad un circolo artistico-letterario alla Bolshaya Dmitrovka, di cui era coordinatore Brjusov. Lì aveva visto per la prima volta Marina e la sorella Asja, accompagnate dal poeta Maximilian Vološin.

A giudicare dal tono della lettera, questa è indirizzata ad un uomo già conosciuto, per il quale si nutre simpatia. I due poeti potevano già essersi incontrati a qualche serata letteraria o ad una riunione di traduttori ma la Berner asserisce che si conobbero proprio da lei nella sua casa in vicolo Telegrafnij a Mosca.

Maria Belkina, biografa della Cvetaeva, ricordava quella stanza nella komunalka: “…pareti verdi, dove si trovava una mobilia antiquata fatta di un legno rosso e negli scaffali libri francesi con le copertine di pelle”. 

Marina Arsen’jevna Tarkovskaja, figlia del poeta, nel suo libro “I Tarkovskij. Schegge di specchio”, edito nel 2018 a Mosca, così ricorda: “Sono andata laggiù diverse volte con la mamma – lei era amica di Nina Gerasimovna. La stanza era pitturata di un color verde antico – questo in un’epoca di carta da parati a basso prezzo e decorazioni di argento costoso. Ricordo che c’era lì una mobilia di un legno rosso – uno scrittoio, un divano e una credenza sormontata da un antico specchio. Sia il colore delle pareti che il mobilio si addicevano molto alla padrona di casa, una bella donna snella dai capelli rossi che, anche negli anni maturi, era assai piacente.”

La stessa Nina Gerasimovna con un po’ di enfasi ricordava: “Si sono conosciuti a casa mia quel giorno. Ricordo molto bene quella giornata. Per qualche motivo uscii dalla stanza. Quando tornai, erano seduti vicini sul divano. Dai loro volti emozionati capii: era successa la stessa cosa alla Duncan e a Esenin. Si sono incontrati, si sono librati in alto, si sono slanciati l’uno verso l’altro.  Un poeta verso un altro poeta…”

Marina Cvetaeva, Sergej Efron, Ariadna, Cecoslovacchia, 1925

Un poeta verso un altro poeta… Questo è molto importante. Quando Tarkovskij giunse nel 1925 a Mosca per studiare, Marina Cvetaeva già da tre anni viveva in Cecoslovacchia ma i suoi versi erano già conosciuti da coloro che si interessavano di poesia e i suoi testi si potevano trovare nei negozi di libri usati, potevano essere letti o scambiati tra amici. Il giovane poeta stimava molto la Cvetaeva, la riteneva un maître, una collega più adulta. Marina Arsen’jevna scrive che a lei, nata nel 1934, Tarkovskij aveva dato il nome Marina proprio in onore della Cvetaeva.

Quando si incontrarono, Marina era appena tornata dalla Francia.  Tarkovskij dall’estate del 1939 con la seconda moglie Antonina Aleksandrovna Trenina e la figlia di lei, Elena, viveva in Cecenia Inguscezia, dove traduceva poeti locali.

Aveva alle spalle l’antico, infelice amore per Maria Gustavovna Fal’z, quindi il matrimonio con Maria Ivanovna Višnjakova, la nascita dei due figli Andrej e Marina, poi l’abbandono della famiglia per l’amore appassionato nei confronti di Antonina… Scrive i suoi splendidi versi ma per l’uscita del suo primo libro ci sarebbero voluti ancora degli anni, per cui la vita lo costringeva a sbarcare il lunario con le traduzioni.

Arsenij Tarkovskij con il figlio Andrej

Sugli anni ’40 della Cvetaeva è stato scritto non poco. Fu un periodo difficile, pesante, insopportabile…Tuttavia per un poeta sempre – al di là di tutte le sciagure e dell’infelicità – più terribile di tutto è il vuoto del cuore.

Quella non invitata, la settima…

Abbiamo già detto che l’incontro tra i due ebbe luogo nel 1940. Allora il marito e il figlio di Marina si trovavano in carcere, su di lei incombeva il pericolo dell’arresto, tutti la evitavano come “guardiabianca”. In quell’epoca pesante Tarkovskij non aveva paura di relazionarsi con lei: Arsenij fu per Marina una boccata d’aria fresca. Si telefonavano, si incontravano, passeggiavano lungo i luoghi amati dalla Cvetaeva – la Volkhonka, l’Arbat, il vicolo Trekhprudnij…una volta si incontrarono in fila davanti alla cassa dell’Editoria di Stato.

Un giorno il giovane Tarkovskij lesse a Marina Ivanovna questi versi:

Mi vergogno di stringere le mani agli adulatori,

ai bugiardi, ai ladri e ai mascalzoni,

di sorridere quando saluto loro

e le loro squallide amanti.

Andiamocene da qui per sempre.

Là – silenzio e treni,

ponti e torri ed erba

e il diurno azzurro degli occhi;

un fiume – e l’eco di montagne rombanti

e a bruciapelo un sonante proiettile.

“Questi versi scioccarono la Cvetaeva, era terrorizzata per Tarkovskij. Al culmine dell’epoca staliniana poteva decidersi ad una tale esternazione o un pazzo o un eroe. La Cvetaeva avvertiva in Tarkovskij l’eroe ma cercava al contempo di mettere un freno al folle. Rassicurando Marina, Tarkovskij le promette che non avrebbe mostrato a nessuno questi versi e la rassicura che da parte delle autorità non c’è alcun sospetto sulla sua lealtà politica. Le parole di Tarkovskij non tranquillizzarono affatto Marina. Al contrario, la lacera il desiderio di proteggere questo giovane uomo, di coprirlo con la sua ala materna”. (Vladimir Faradzev)

Quelli che li vedevano insieme, si accorgevano di come la Cvetaeva cambiasse in compagnia di Tarkovskij.

Il pittore Steinberg ricordava: “Ho visto la Cvetaeva solo una volta nella vita, poco prima della guerra. Ero in fila davanti ad una casa editrice per prendere dei soldi…C’era tanta gente, quando all’improvviso qualcuno mi dà un colpo in un fianco e mi indica la Cvetaeva…Vidi una donna anziana, trascurata, che aveva palesemente dato forfait, quasi estraniata da quelli che la circondavano. Si protendeva tutta verso qualcuno che era appena entrato. Sbirciai e vidi Tarkovskij. Questa scena mi ha rammentato la “Giselle” nell’interpretazione della Ulanova…attraversava semplicemente tutta la scena, recitandola magistralmente. Giselle si era trasfigurata. Era la Donna, l’Amore”.  

Ma Tarkovskij, preoccupato, ricordava pure:

“Poteva chiamarmi alle quattro di notte tutta agitata. “Sapete, ho trovato in casa mia un vostro fazzoletto”. “Perché pensate che sia mio? Da tempo non ho fazzoletti con le iniziali”. “No, no! E’ vostro, ci sono le iniziali A.T., ve lo porto subito”. “Ma, Marina Ivanovna…sono le quattro di notte!” “E allora? Arrivo subito”. E venne, portò il fazzoletto. Effettivamente c’erano le iniziali A.T..” Peccato che il fazzoletto fosse di Antonina, che era pure parecchio gelosa…

Marina Arsen’evna scrive: “L’atteggiamento di papà nei confronti della Cvetaeva non cambia. Lui, poeta ormai maturo, si sentiva tuttavia come un deferente scolaro, lei era per lui un vecchio amico ed un Maestro. Alla poesia – Il grillo – (1940) nel quaderno di papà c’è un’aggiunta: ‘Recondito nel secondo verso – termine pensato da M.C. al posto del mio che non le piaceva (ho ritrovato il termine di papà – funebre)’”.

Una volta, in presenza della Cvetaeva, Tarkovskij lesse una sua poesia, dedicata alle persone care che erano morte – il padre, il fratello, la donna amata Maria Gustavovna Fal’z (i versi erano stati scritti alcuni giorni prima dell’anniversario della sua morte):

La tavola è apparecchiata per sei

rose e cristalleria

e tra i miei ospiti

dolore e tristezza.

E con me mio padre

e con me mio fratello.

Passa un’ora. Finalmente

bussano alla porta.

Come dodici anni fa,

la mano è fredda

e frusciano le grigie

sete fuori moda.

Ed il vino tintinna dall’oscurità

e canta il vetro:

come ti abbiamo amato,

quanto tempo è passato!

Mi sorriderà mio padre,

il fratello mi verserà del vino,

lei mi porgerà la mano senza anelli

e mi dirà:

-I miei tacchetti sono nella polvere,

si è scolorita la treccia

 e cantano da sotto terra

le nostre voci.

1940

La Cvetaeva solitamente ricordava con facilità i versi altrui fin dalla prima lettura. Ma nella sua poesia di risposta si discosta dallo stile di ballata di Tarkovskij, dal trocheo, utilizza il giambo cosa che dà ai versi una forza particolare ed un certo drammatismo. La Cvetaeva chiama quelli seduti al tavolo a suo modo: in Tarkovskij – “il padre, il fratello, Lei ed i simbolici dolore e tristezza”, nella Cvetaeva :“due fratelli, un terzo – tu e tua moglie, il padre e la madre”. Marina Ivanovna non capì – o non volle capire – che alla cena di Tarkovskij viene la donna da lui amata, quella che era morta. Forse, sapendolo, non gli avrebbe scritto quei versi di risposta che risuonavano non soltanto come un rimprovero ma anche come una speranza in un cambiamento in positivo della loro relazione. Comunque alla cena lei non era stata invitata.

Ripeto continuamente il primo verso

e continuamente correggo una parola:

“Ho apparecchiato la tavola per sei..”

te ne sei dimenticato uno – la settima.

g

Non siete allegri in sei.

Sui volti – getti di pioggia…

Come hai potuto a questa tavola

aver dimenticato un altro – la settima…

g

Non sono allegri i tuoi ospiti,

se ne sta inoperosa la caraffa di cristallo.

Sono tristi loro – e triste tu,

quella non invitata – la più triste di tutti.

a

Non c’è allegria e non c’è luce.

Ah, non mangiate e non bevete.

-Come hai potuto dimenticare il numero?

Come hai potuto sbagliarti a contare?

a

Come hai potuto, come hai osato non capire

che il sei (due fratelli, un terzo –

tu e la moglie, il padre e la madre)

diventa il sette – ci sono anch’io al mondo!

a

Hai apparecchiato la tavola per sei

ma il mondo non si misura in sei.

Più che uno spaventapasseri tra i vivi

voglio essere uno spettro – con i tuoi.

a

(I miei)

      Timida come un borsaiolo,

oh – senza toccare nemmeno un’anima! –

davanti al servizio non apparecchiato

mi metto senza essere stata chiamata, la settima.

a

Orsù! – ho rovesciato il bicchiere!

E tutto quello che aveva sete di scorrere,

tutto il sale dagli occhi, tutto il sangue dalle vene –

dalla tovaglia – sul pavimento.

a

E – non c’è la bara! Separazione – nemmeno!

La tavola ha sciolto l’incantesimo, la casa si è risvegliata.

Come la morte – al pranzo nuziale

io – la vita sono giunta al momento della cena.

a

…Nessuno: non un fratello né un figlio né un marito

né un amico – e tuttavia faccio un rimprovero:

tu, che hai apparecchiato la tavola per sei – anime,

non mi hai messa nemmeno in un angoletto.

6 marzo 1941

Marina non fece leggere questi versi a Tarkovskij che ne venne a conoscenza ben quarantadue anni dopo! Il fisico moscovita Alexandr Nikolaevič Krivomasov, organizzatore di letture clandestine di poeti e scrittori nel suo appartamento, ricorda: “Il dodici ottobre del 1982 Pavel Nerler portò a Tarkovskij un dono inestimabile, la pubblicazione sulla rivista Ogonëk dell’ultima poesia della Cvetaeva. E a lui quest’ultima, tarda, sconosciuta poesia parve come una straordinaria esplosione dell’anima, un dono sacrale solo a lui comprensibile nel testo e nella lingua, una straordinaria dedica e un addio.”

Ma il sedici marzo del 1941, esattamente dieci giorni dopo la poesia di Marina, Tarkovskij, non sapendo nulla dei versi della Cvetaeva, aveva scritto per lei questa poesia:

                                        Da un vecchio quaderno

Tutto in realtà si collegò – la stessa aria

intorno a te fino alle stesse tue stelle

e la cintola ed ogni tuo cocciuto,

elastico passo ed il verso sgraziato.

a

Tu – non rispondi a nessuno,

libera di ardere e libera di elargire,

pensa soltanto: non c’è stata separazione,

torneranno a stringersi, come le acque, gli anni.

a

Per la felicità – per il dolore – per gli anni – la mano.

Non schiudere di nuovo le ali chiuse:

a te sono soggette le acque fatali,

non bisogna di nuovo separarle.

Presto apparve chiaro che Arsenij Tarkovskij (che, peraltro, definì sempre l’incontro con la Cvetaeva come l’avvenimento più importante della sua vita) evitava gli incontri con lei. Nella primavera di quell’anno fatale addirittura non l’aveva salutata ad una fiera di libri al Circolo degli Scrittori. Per sua stessa ammissione era un uomo, un poeta che preferiva amare molto più che accettare l’amore. In questo atteggiamento il suo punto di vista coincideva con quello di Anna Achmatova. Sia fisicamente che emozionalmente non poteva dedicare a Marina Ivanovna più tempo di quanto non gliene avesse già dedicato. Aveva una giovane moglie ed una figlia adottiva, una ex moglie con due bambini piccoli ed una madre anziana, erano morte tante persone amate.

la casa dei Brodel’scikov, dove si stabilì la Cvetaeva a Elabuga

Si compiva, intanto, l’amaro destino di Marina: l’otto agosto del 1941 con il figlio veniva evacuata da Mosca alla volta di Elabuga, città del Tatarstan che lascerà per soli tre giorni, dal 25 al 28 agosto, per recarsi nella vicina Cistopol’. Là viveva tra gli altri lo scrittore Nikolaj Aseev che Marina aveva conosciuto prima della guerra, sul cui aiuto contava: era, infatti, un autorevole membro della locale sezione dell’Unione degli Scrittori. Ma, dopo aver ripetutamente ed invano chiesto di essere assunta nella locale mensa per gli scrittori che stava per essere lì aperta, la Cvetaeva, sbrigate alcune pratiche burocratiche, il ventotto agosto del 1941 fece ritorno ad Elabuga dove si impiccò il successivo trentuno agosto.

Chissà, forse il destino della Cvetaeva sarebbe stato diverso se Tarkovskij fosse andato anch’egli  a Cistopol’ in quegli stessi giorni. Ma era occupato a mettere al sicuro le persone care: dapprima la ex moglie coi bambini, poi la seconda moglie con la figlioletta, infine l’anziana madre.

Arruolatosi, Tarkovskij aveva chiesto di essere mandato al fronte ma, a causa della salute malferma, era stato aggregato alle truppe ausiliarie insieme ad altri scrittori.

Il sedici ottobre Tarkovskij si mise in viaggio per Cistopol’, dove era stata già evacuata la moglie, per portarvi la vecchia madre. Lì scaricava barconi, chiedeva continuamente di essere inviato al fronte. Quando venne a sapere della morte di Marina, tormentato dal rimorso di non esserle stato accanto, di non averla aiutata nel momento più cupo della sua vita, scrisse quei versi pieni di disperazione che costituiscono il cosiddetto “Quaderno di Cistopol’”.

                                            Elabuga

Chiamo – non risponde, dorme profondamente Marina.

Elabuga, Elabuga, argilla di cimitero.

a

Con il tuo nome si potrebbe chiamare una palude di fango,

con il tuo nome, come fosse un chiavistello, serrare un cancello.

a

Con te, Elabuga, si potrebbero spaventare bambini odiosi,

potrebbero giacere nelle tue tombe mercanti e banditi.

a

E su chi hai soffiato il tuo atroce gelo?

Per chi sei stata l’ultimo terrestre rifugio?

a

Di quale cigno hai udito il canto prima dell’alba?

Tu hai sentito l’ultima voce di Marina.

a

E adesso, maledetta – come mai non piangi?

Brilli come puro oro: nascondi Marina!

1941

a

Dov’è la tua onda sonante,

la soffocante, nera marea,

tu, alata, stella cadente,

cosa ti sei fatta?

a

Come rilucevi, benefattrice,

elargendo tutto lungo il cammino.

Potermi alzare, poter gridare, oppormi,

sollevarti e portar via –

a

fermarti è impossibile – ed è tardi per pentirsi:

soffocando, vai a fondo.

Così la perla si lascia andare

nella proibita profondità.

settembre 1941

a

Con insopportabile ira tu, Signore, punisci,

io gelo sotto il tuo respiro.

Tu, la mia carne umana indifesa

tagli con una spada di ghiaccio.

Un angelo della bufera di neve mi fa a pezzi

le dita con un martello

al tramonto del giorno del Giudizio

e mi bacia gli occhi e mi suona nelle orecchie con le trombe

e mi ricopre di neve.

Non ce la faccio a respirare sotto il tuo piede,

sono ubriaco del tuo vino che tortura.

Chi sono io, mio Signore Iddio, davanti a te?

Sebastiano, il tuo servo Sebastiano.

novembre 1941

a

Io ascolto, non dormo, mi chiami, Marina, (1)

canti, Marina, per me, minacci con l’ala, Marina,

come le trombe degli angeli cantano sulla città

e soltanto con la tua incurabile amarezza

il nostro pane avvelenato prenderai nel Giudizio universale.

Così portavano le ceneri natali alle porte di Gerusalemme

gli esuli, quando David componeva salmi

ed il nemico piantava le sue tende su Sion.

Ma nelle mie orecchie risuona il tuo mortale richiamo,

al di là della nuvola nera arde la tua ala

come fuoco profetico sulla crudele volta celeste.

 1946    

Dopo una lunghissima pausa un nuovo componimento, pieno di rabbia e risentimento per quelli che avevano negato alla grande Marina Cvetaeva addirittura un posto come lavapiatti:

Amici, amanti della verità, proprietari

di tempi trafitti dalle morti,

cosa vi lesse la Cvetaeva

tornando dal suo funerale?

a

Cosparsi i capelli di argilla

e più gialla dell’argilla la sua mano,

c’era tanto silenzio che la voce

io non sentivo da lontano.

a

Forse il suo compito

stava nel fatto che, alzandosi sulle punte,

senza sosta mettesse l’accento

sull’impennata del verso dispari.

a

Sulla Kama quali ultime (2)

parole le giunsero in ricordo

in quell’amara ma ancora estiva

dolorosa ora della terra

a

che salutava i soldati che andavano in guerra,

vedova, come una madre naturale,

quella terra, che pur aveva

il vezzo di non carezzare gli estranei?

a

Con tutta la massa, con tutta la vostra potenza

voi siete laggiù, oltre l’ultima linea –

con tutta la vostra ingiusta verità

e il giusto errore.

1962

L’ultima foto di Marina Cvetaeva

Poi il sedici gennaio del 1963, nello stesso giorno, scrive ben tre poesie dedicate a Marina Cvetaeva. Cosa era successo proprio quel giorno? Cosa aveva scatenato la vena creativa del poeta? Purtroppo non lo sappiamo.

                     Il lavaggio dei panni

Marina lava i panni.

Nella superbia, l’effervescente schiuma

le sue alacri mani

scaraventano sulla nuda parete.

a

Strizza i panni. La finestra –

spalanca sulla strada ed appende il vestito.

                                          Fa lo stesso,

che vedano pure anche questa crocifissione.

a

Risuona un aeroplano al di là della finestra

lungo il catino si allarga la schiuma,

per la prima volta urla a squarciagola di giorno

la sirena dell’allarme aereo.

a

Dal grigio abito alla finestra

quattro aršin nel buio

fino alla porta.

      Come sul fondo di un fiumiciattolo

nelle verdi tenebre – sta Marina.

a

Da due mesi dalla fronte

allontana le ciocche ostinatamente

ma più avanti il destino-padrone di casa

sarà ancora più ostinato sulla Kama …

1963

    Come ventidue anni fa

E per ogni uomo, c’è la morte

per ogni fuscello, il fuoco e il tacco

ma per me anche in questo stridore di denti, in questo pianto (3)

un’altra morte è più percepibile di tutte le separazioni.

s

Perché – freccia – non mi sono bruciato nel grembo

dell’incendio? Perché il mio semicerchio

non si è concluso? Perché nel palmo della mano

la vita, come un rondone, tengo? Dove è il mio migliore amico,

a

dove il mio idolo, dove l’angelo dell’ira

e della giustizia? A destra sangue e a sinistra

sangue. Ma la tua morte, senza sangue, è cento volte

più mortale.

a

                       Io, ributtato indietro dalla corda

della guerra, non chiuderò i tuoi occhi.

E di cosa sono colpevole? Di cosa sono colpevole?

1963

                           Tra ventidue anni

Non discorsi –

              no, io non voglio

i tuoi tesori – giuramenti e pianti –

non imparerò di nuovo a scrivere

e il mio modo di parlare non modificherò.

a

Non per coraggio davanti alla morte – tu

hai realizzato fino in fondo tutti i tuoi propositi

nei tuoi quaderni fino ai limiti

dove è finito il tuo inchiostro –

a

non la supremazia –

                               io ti darò

tutto ciò che è mio, affinché a te di diritto

nel giorno superfluo ti consegnino infine

nella terra – la tua gloria terrena –

a

non l’audacia delle tue passioni

e non che tutto è uguale

ma insegnami soltanto

dalla tomba il tuo ricordo, Marina!

a

Come ho paura di dimenticarti

e scambiare in un attimo

il retto fosforescente filo

per raddoppiare, triplicare

le rime –

         e nella tua poesia

seppellirti di nuovo.

1963

“Tutti i ricordi di lei, tutti i suoi versi vorticosi, burrascosi o per meglio dire che toglievano la pace, tutto quello che personalmente le doveva – tutto questo, messo insieme, egli lo nascose nella stanza più lontana e gettò la chiave nel fiume”.

          Nina Savel’jeva – dal libro “Marina Cvetaeva e Arsenij Tarkovskij”

 

1) I due poeti avevano una comune ossessione: l’insonnia. In russo sonno e sogno sono espressi con un’unica parola son. Marina adorava i sogni ad occhi aperti, creare e sognare erano per lei la stessa cosa, al punto che l’insonnia diventò la sua musa. Scrive la Cvetaeva: “Dopo la notte insonne, indifferenti sono nemici e amici – Se ti diranno non son fresche le tue guance, rispondere dovrai: con l’insonnia ho fatto baldoria”. (NdT)

(2) Kama – fiume della repubblica tatara, sulla cui confluenza col fiume Toima si trova la cittadina di Elabuga. (NdT)

(3)  Cfr Matteo 8,10 (NdT)

Tutte le poesie di Tarkovskij, qui presentate, sono tratte dalla “Raccolta delle opere” in tre tomi edita a Mosca, “Chudožestvennaja literatura”, nel 1991. (NdT)

La poesia di Marina Cvetaeva è tratta dalla “Raccolta delle opere” in due tomi edita a Mosca, “Chudožestvennaja literatura”, nel 1988. (NdT)

One Comment

  • Giorgio Linguaglossa

    Nell’intervista a Iosif Brodskij pubblicata su questa rivista e tratta dal libro edito da LietoColle Dialoghi con Iosif Brodskij (2016) è riportato questo dialogo:

    Brodskij: Ma questa non è affatto una contraddizione. È il tempo la fonte del ritmo. Ricorda quando ho detto che ogni poesia è tempo riorganizzato? E più un poeta è tecnicamente vario, tanto più intimo è il suo contatto col tempo, con la fonte del ritmo. Così Cvetaeva è uno dei poeti più ritmicamente vari, ricchi e generosi. Tuttavia, la “generosità” è una categoria della qualità; e noi cerchiamo di operare solo quantitativamente, non è vero? Il tempo parla all’individuo con voci diverse. Il tempo ha un suo basso, un suo tenore. E un suo falsetto. Semmai, Cvetaeva è il falsetto del tempo, una voce che va oltre la nozione musicale.

    Volkov: Così lei pensa che l’eccedenza emotiva di Cvetaeva abbia lo stesso scopo della neutralità di Auden? Cvetaeva raggiunge lo stesso effetto?

    Brodskij: Lo stesso, se non maggiore. Secondo me, Cvetaeva, come poeta, per tanti aspetti è più grande di Auden. Quel suo tono tragico… alla fine, il tempo stesso capisce cosa sia. Deve capirlo e farsi sentire. È da qui, da questa funzione del tempo, che è apparsa Cvetaeva.

    Volkov: Ieri, tra l’altro, era il suo compleanno, e ho pensato: sono passati così pochi anni; se Cvetaeva fosse sopravvissuta potrebbe essere ancora con noi, potremmo vederla e parlare con lei. Lei, Iosif, ha parlato sia con Achmatova che con Auden. Frost è morto da non molto. Insomma, i poeti di cui stiamo discutendo, sono nostri contemporanei, e allo stesso tempo sono già figure storiche, quasi dei fossili.

    Brodskij: Sì e no. Questo è molto interessante Solomon. Di fatto, la visione del mondo che lei trova nelle opere di questi poeti è entrata a far parte della nostra percezione. Se vuole, la nostra percezione è il completamento logico (o forse illogico) di ciò che è contenuto nelle loro poesie; è lo sviluppo dei principi, delle motivazioni, delle idee, che si esplicitano nelle opere degli autori da lei citati. Dopo averli scoperti, nella nostra vita non è successo più nulla di così sostanziale, non è così? Cioè, io ad esempio, non ho incontrato niente di più significativo. Compreso il mio proprio pensiero… queste persone semplicemente ci hanno creato. E basta. Ecco cosa li rende nostri contemporanei. Nient’altro ci poteva formare così, almeno me, come Frost, Cvetaeva, Kavafis, Rilke, Achmatova, Pasternak. È questo che li rende nostri contemporanei, finché non tireremo le cuoia, fintanto che saremo vivi. Penso che l’influenza di un poeta, questa sua emanazione o irradiazione, si estenda per una o due generazioni.

    Volkov: Quando ha conosciuto per la prima volta le poesie di Cvetaeva?

    Brodskij: A diciannove, vent’anni circa. Perché prima non ero particolarmente interessato a tutto questo. Cvetaeva, ovviamente, la leggevo già allora, ma non nei libri, solo nelle copie battute a macchina del samizdat. Non mi ricordo chi me l’ha dato, ma quando ho letto il Poema della montagna, tutto si è sistemato. E da allora, niente di quello che poi ho letto in russo mi ha fatto un’impressione così grande come Marina.

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