Cinque pagine

Il poemetto “Cinque pagine” di Konstantin Simonov (1915-1970), pseudonimo di Kirill Simonov, che presentiamo per la prima volta in traduzione italiana, si può leggere quasi come un romanzo a puntate ed è un’opera nella quale si intrecciano saldamente poesia ed autobiografia. È in sostanza la narrazione della relazione intercorsa tra il poeta e la prima moglie Natalja Viktorovna Ginsburg-Sokolova, sposata quando Simonov aveva appena diciannove anni. La trama è semplice, quasi banale ma i contenuti sono complessi: una donna ed un uomo si conoscono, si innamorano, vivono insieme, si disamorano. Quella passione che aveva significato felicità, allegria, tenerezza, condivisione si trasforma, incrinata dalla quotidianità, in abitudine e noia. La profondità della reciproca conoscenza, anziché arricchire gli amanti, li rende col passare del tempo l’un l’altro noiosi e prevedibili: così muore l’amore, “così comincia la fine”.

                                                 Cinque pagine

In un albergo di Leningrado, in questo

dove io oggi scrivo tra un armadio a muro

ed un’anonima specchiera, notai per caso una piccola pila

di foglietti appallottolati che giaceva lì – una lettera dimenticata da qualcuno.

Senza busta e senza indirizzo. Evidentemente la lettera era

del novero di quelle non spedite, di quelle che non vale la pena finire.

Mi misi a leggere. Erano le dieci. Le undici.

Non lessi semplicemente – come un viaggiatore attraversai quella lettera.

Si cominciava come al solito con l’anno, la data, un saluto;

si vedeva che, chi scriveva, trascinava macchinalmente l’inizio,

chiedeva perdono a qualcuno per un libricino… 

Saltate queste righe, mi immersi avanti nella lettura.


Prima pagina

Tra poco più di un’ora me ne vado con l’espresso polare.*

Ci siamo detti addio così fermamente che persino scrivere non fa paura.

Io la spedirò, tu la riceverai con interesse,

la leggerai ai conoscenti e tranquillamente la butterai nel cestino.

Ma cosa ci è successo che non possiamo più stare insieme?

Dove ci dicemmo qualcosa di sbagliato, facemmo un passo falso e ci incamminammo

e a quale ora, in quale posto per tre volte maledetto,

sbagliammo e non potemmo più correggere?

A conoscerlo questo posto, se ci si potesse tornare, magari,

ma non lo troverai, non c’era proprio!

Nel nostro libro delle lamentele non ci saranno scritte lamentele:

per quanto lo sfoglierai, in ogni caso non troverai nulla.

Prendere almeno le mie lettere – ne ho sempre avuto una paura da morire.

Forse si può non bruciarle, tenerle in mano?

Per quanto le leggi di nuovo, per quanto di nuovo le confronti e le misuri

nei vecchi fogli troverai solo un nuovo dolore.

Da poco caparbiamente le hai lette tutte di seguito.

Nelle prime lettere c’era scritto che io senza di te non ci so stare.

Nelle mie prime lettere, dello spessore di un quadernone,

mi sembrava che mi sarei messo a correre lungo le rotaie, senza reggermi.

Tutto quello che pensavo e sapevo, l’appuntavo subito sulla carta

ma alla terza assenza (me ne sorprendo io stesso) 

nelle lettere giorno dopo giorno sempre più spesso e insistentemente

si ripeteva una parola prima appena percettibile “amo”.

Ma dopo un po’ cominciano le seconde lettere –

la posta quotidiana per la nostra amata moglie

senza particolari macchie d’inchiostro e mai umide di lacrime

moderatamente brevi e prosaiche, moderatamente lunghe e tenere.

Non tutto era ancora scorrevole e se le guardi alla luce

là era di casa la gomma da cancellare: ma presto mancherà pure questo…

E allora compaiono sulla scena le ultime, le terze, 

le terze, le lettere sagge –  puoi anche non bruciarle né distruggerle.

Se osservi con realismo – cosa pare che ci sia di strano?

Nelle lettere tutto bene – io scrivo due volte al giorno,

mi rivolgo a te per un aiuto, un consiglio,

ti voglio bene, ti apprezzo incondizionatamente.

Perché credo in te e ti conosco più profondamente,

perché sei un’amica, perché sei sensibile ed intelligente…

Solo una cosa non c’è, una cosa non leggerai tra le righe:

che senza tutti i “perché” tu mi sei semplicemente necessaria come l’aria.

Attraverso le mie lettere tu hai voluto leggere la nostra vita.

Hai letto fino alla fine e non vedevi l’ora di gridare:

forse bisognava dargli l’anima e il corpo

per ricevere simili lettere il quinto anno?

Tu allora tacesti. E, piangendo semplicemente dal dolore,

col viso sul cuscino come un bambino, ti sdraiasti sul vecchio divano

e singhiozzavi senza far rumore e, sentito il mio passo nel corridoio,

in fretta e furia nascondesti le lettere nel cassetto aperto del tavolo.

Leggere queste lettere? Ci saremmo ficcati in un brutto affare

perché ci saremmo accorti di come era cambiato “intime” in “amichevoli”.

Là è l’inizio della fine, quando si leggono le vecchie lettere,

dove le reliquie – per ricordare la vicinanza – ci sono necessarie.

* Treno che collega San Pietroburgo a Murmansk, città situata nell’estrema parte nord-occidentale della Russia europea (NdT).


Seconda pagina

Io ti amavo in toto ma le tue labbra e le mani – in particolare

meravigliandomi delle piccole cose non importanti ma a noi care.

Sapevamo essere amici anche per qualcosa di estraneo al sesso

e, giacendo vicini, parlare per ore con te di notte.

Questa amicizia non è quella dietro la quale si nascondono screzi.

Questo è il legame più primitivo, più fedele.

Questa amicizia è quando ci si dimentica delle mani e delle labbra

per parlare del più recondito tutta la notte, in fretta.

Un anno fa siamo dovuti andare al nord per lavoro

lungo antiche chiese, antiche e remote città.

Rumoreggiava nei campi l’inebriante, odoroso trifoglio

e la polvere della strada si sollevava lungo le nostre orme.

Il viaggio sembrava ad entrambi straordinariamente felice:

la mia creatura moscovita per la prima volta vedeva campi,

prati e le falciature e le piene dei fiumi del nord.

E per la prima volta sentiva come odora la terra nera.

Soltanto qui hai avvertito nelle stelle tutto il cielo notturno,

i pini rossastri si ergono lungo la strada come una parete…

Perché non sei venuta prima con me al nord,

perché ti sei abituata a guardare alla terra dalla finestra?

Chissà come, qui tu, che sempre mi davi la mano,

tu che con un sorriso eri capace di aiutarmi nel peggiore dei giorni,

tu a cui io obbedivo, mia guida e garanzia,

che nella nostra buona cooperazione eri stata eternamente più forte,

qui, lontano da casa, all’improvviso nel viaggio ti smarristi,

ti meravigliavi di tutto – delle foglie, dei cespugli e dei fiori.

Ridevi e cantavi: mi sembrava continuamente

che, battendo le mani, come da bambina ti saresti messa a saltare.

Ricordo il tramonto, il guado attraverso il fiume tempestoso.

Mi toccò prenderti sulle ginocchia in una barca bagnata,

spediti in una chiesa con severi affreschi del Greco,*

noi, non ancora asciugati, cercavamo di esprimere giudizi.

Con ilare esultanza riconoscevamo i secoli dai colori,

distinguevamo i santi dai severi nasi e dai baffi 

e con la mano audace raggiungemmo la cupola

e scendemmo indietro lungo ponteggi scivolosi e precari.

Tu desideravi essere una buona compagna di viaggio,

per non rovinare la compagnia bevevi birra amara,

masticavi carne stoppacciosa sorridendo allegra,

dormivi in ostelli turistici come non avevi mai dormito a Mosca.

Ricordo l’autostrada con la frettolosa burrasca, con le nuvole.

Io volevo riposare, tu arrabbiata mi scrollasti le spalle

e chiassosamente battevi l’asfalto con i tacchi

per dimostrarmi che sopportavi benissimo la stanchezza.

Beh, mia fedele compagna di viaggio, forse era necessario –

sia masticare quel che capitava sia fare amicizia con un duro letto. 

Peccato per una cosa sola – che nel viaggio abbiamo vissuto ostentatamente d’accordo,

avendo deciso di rimandare a Mosca i nostri litigi.

E ci riuscimmo. Solo che a volte proprio questo faceva male,

che per la prima volta fummo capaci di rimandare le nostre baruffe.

Là comincia la fine dove, senza superare il dolore del giorno prima,

noi, desiderando la pace, passavamo il giorno in amicizia.

*Teofane il Greco (1340-1410), pittore bizantino si trasferì nel 1378 a Novgorod dove dipinse gli affreschi della chiesa della Trasfigurazione, la sola opera a lui attribuita con certezza. (NdT)


Terza pagina   

Ricordo il tempo in cui non eravamo capaci di stare con gli altri.

A tutti e due davano fastidio le loro orecchie, gli occhi, le voci.

In una allegra festicciola, dove si faceva molto rumore e si mangiava,

riuscivamo a stento a starci più di un quarto d’ora.

Per seguire le lezioni, volutamente non ci sedevamo vicini.

Tuttavia, di chi, di come, di qualsiasi cosa si parlasse,

forse poteva impedirci di catturarci lo sguardo con lo sguardo

e, se per caso non lo avessimo incontrato, considerarlo un’offesa mortale?

Ti ricordo ad una riunione. Ti aspetto a lungo. E per tre volte

ora mi avvicino alla porta, ora colgo frammenti attraverso la finestra.

Potessi soltanto ascoltare la tua voce! Non importa di cosa parli,

che sia del superamento degli esami, forse non è per me la stessa cosa?

Cosa fosse l’abitudine, inizialmente proprio non lo sapevamo,

se la conoscevamo, era dai libri, allora ci sforzavamo di dimenticarla.

E quindi amarsi l’un l’altro per noi significava –

scoprirsi ogni giorno come fosse la prima volta.

C’era di che scoprire. Separatamente, ognuno aveva fatto esperienza.

Per raggiungere in due gli angoli più dimenticati,

per ricordare ogni minuzia almeno una volta

nei primi momenti non ci bastavano né ore né parole.   

Ma poi ci sono bastati parole, ore, ragione

per rimettere un po’ in sesto le nostre preoccupazioni.

Avevamo tanto da fare, spesso non ci vedevamo per giorni,

io con la testa nelle mie cose, tu nel tuo lavoro.

Abbiamo imparato a condividere solo l’oggi e il domani,

a parlare oggi di quello che è successo ieri.

Era diventato tranquillo, abituale come la colazione al mattino,

il tempo per questo lo decidevamo addirittura il mattino.

Prima ci eravamo reciprocamente grati di tutto.

Ogni cosa sembrava una scoperta, si era impazienti di regalare tutto.

Ma sparirono le scoperte, i regali si facevano coincidere con le date,

tutto era necessario, dovuto e non c’era di che ringraziare.

Un cumulo di abitudini di poco conto avvelenava i nostri giorni.

Come mangiavo, come bevevo – tutto potevi sapere in anticipo,

come entravo in casa, come indossavo la giacca,

come sedevo a tavola e come da tavola mi alzavo.

Sempre noi due. Ormai guardiamo con occhi abitudinari

e accoglievamo ospiti occasionali con sempre meno fatica.

Dopo un anno, dopo due noi stessi ormai li invitiamo

e gli amici, spesso, senza imbarazzo vengono a casa nostra.

Perdiamo tempo allegramente in discussioni rumorose sull’eternità.

Il tavolo è coperto dal giornale, beviamo come studenti un tè annacquato.

Ma, rimasti soli, in quei giorni ancora ripetiamo:

“Siamo stati benone con loro ma in due è meglio”.

Se in due è meglio, significa che ancora non è andato tutto in malora.

Significa che andiamo d’accordo, che insieme ancora tiriamo avanti…

Ricordo il giorno in cui abbiamo capito: come un francobollo postale

la nostra vita comune ne è stata timbrata.

Per sfortuna, un giorno di ferie.  Tutto il giorno abbiamo chiacchierato del più e del meno.

E, imbronciati, ci siamo seduti negli angoli. Io da una parte. Tu da un’altra.

Ci siamo imbattuti quel giorno in qualcosa di noioso, grande, orrendo.

Per la prima volta ci sembrò allora che intorno ci fosse il vuoto.

Non avevamo voglia di parlare, ormai ci eravamo spiegati a sazietà.

Era presto per dormire e non avevamo voglia di sistemare il letto sul divano.

E allora, come se ci fossimo messi d’accordo, all’improvviso entrambi ci alzammo

e ci avvicinammo al telefono per invitare chicchessia.

Ed ecco arrivarono gli ospiti. Facevamo apposta caciara,

messa sottosopra in quattro e quattr’otto la nostra fragile mobilia,

cercavamo di fare baldoria per non pensare ai fatti nostri,

cercavamo di non pensare – e pensavamo sempre alla stessa cosa.

Che per la prima volta cercavamo sollievo negli invitati,

che con le nostre mani stavamo dando via la nostra felicità.

Quanto più eravamo tristi, tanto più non lasciavamo andar via gli ospiti.

Alla fine li congedammo e di nuovo rimanemmo soli.

Dopo, tante volte ci è capitato di star bene insieme.

Lavoravamo accanto ed eravamo soddisfatti del destino.

Ma ricordavo sempre, e dubito che tu lo abbia dimenticato,

che all’improvviso mi è sembrato di non star bene in due con te.

Noi, consapevoli di questo, ci guardavamo con occhi secchi,

capivamo che sarebbe stato improbabile sfuggire dal ricordo.

Là comincia la fine dove, desiderando rimanere sordi,

per la prima volta abbiamo messo a tacere il nostro dolore col grido altrui.


Quarta pagina

Ricordi la stanza stretta con la parete infreddolita a morte,

col letto pieghevole, con il suono delle ferite sgangherate?

Tu ci venivi con me sempre più raramente

a volte prima di andare a letto e quasi mai al mattino.

Non la amavi per le tazze sporche e i barattoli

e per il fatto che non era calda, non era luminosa, non era bianca,

per la finestra sbilenca, per la fredda stufa provvisoria

e per il fatto che tutta la stanza era provvisoria.

Allora io mi offendevo. Messo da parte per un po’ il lavoro,

appesi un tappeto. Riparai un vetro rotto.

Piantai dei chiodi. Con la goffa operosità maschile

mi sforzavo di infondervi la comodità femminile e il calore.

Tutto fu inutile. C’era meno freddo e vento

ma rimaneva tuttavia lo stesso odore di bivacco non vissuto.

Forse, semplicemente ci stavamo stretti? Ma sette metri e mezzo,

se va tutto bene, sono forse pochi per due?

Eravamo dei cuccioli. Ci è toccato sbatterci un po’

per capire che la causa non erano la stanza e nemmeno il letto,

per capire alla fine come è veloce innamorarsi per qualche tempo

e come è complesso campare con te occhi negli occhi.

Quanti esami abbiamo preparato tu ed io in questo bugigattolo,

portando la lampada a cherosene, ci riscaldavamo con un precario tepore.

Quanti miei disegni e calcoli hai corretto,

ripetendo paziente al tavolo con me l’abbiccì.

Sono stato là recentemente. A causa dell’improvvisa partenza là sono state dimenticate

tante cose diverse, è rimasta appesa là la tua vestaglia da casa.

Due chiodi storti sono stati piantati sul muro maestro

e su di loro, tutta impolverata, se ne sta di sghembo una lunga cornice.

E’ così vivo questo ricordo che è addirittura prematuro ricordare.

Avevamo pochi soldi, non era un granché la vita quotidiana.

Per il mio compleanno, ritrovata questa vecchia cornice,

ci hai messo delle tue fotografie e me l’hai data per ricordo.

Venti tue foto. Ti riconosco anno per anno:

ecco una bambina nuda di due anni, ecco una ragazzina con una buffa treccina,

ecco una seriosa adolescente e sul lato destro

tu sei come ci siamo visti per la prima volta.

Come ho potuto dimenticare in questa stanza le tue foto?

Tutto sta ancora qui, come se non te ne fossi andata.

Là è l’inizio della fine dove, guardando i ritratti di una volta,

in loro si trova il calore ma dentro di te non lo trovi più.


Quinta pagina

E così, ci siamo salutati e avremmo potuto sedere, pare, in silenzio.

Avremmo realisticamente capito che avevamo ancora tutta la vita davanti.

Perché allora ti scrivo con questa non dissimulata rabbia,

come se non avessi dimenticato, come se volessi gridare: aspetta!

Aspetta ad andartene! E che sono maledetto per contare

da solo le nostre disgrazie! Ripetere per la centesima volta: “Perché”?

Vieni, sediamoci un po’, rattristiamoci ancora un po’ per una notte intera.

Se c’è da essere tristi, mi dispiace essere triste da solo.

Se ami, preparati ad incassare colpo su colpo

a restare dopo una lunga felicità in un posto vuoto;

non per niente tutti i romanzi finiscono con i matrimoni

perché non sanno che farci poi col protagonista.

Perché ho tanta tristezza? E che, sono stufo della vita?

E che gli uccelli non cinguettano, l’erba non diventa verde?

Forse, accingendomi ora ad un mio affare incompleto,

non dimenticherò tutto, rimboccate di nuovo le maniche?

E anche tu sei così, anche tu non piangerai.

Imparerai soltanto a puntare alle sette la vecchia sveglia.

Ti metterai a lavorare il doppio…se deciderai di dimenticare, dimenticherai…

Se hai dimenticato – non ricorderai, se non ricordi – dimenticherai del tutto..

Tutto l’ultimo periodo mi ha portato in abbondanza nostalgia

ma in tutti questi anni non ricordo né ora né giorno

in cui ho sentito nelle mani una simile pesante forza,

una tale sete che mi incalzava lungo strade.

Allora perché sono così triste? Perché scrivo senza correzioni

tutto di seguito delle mie ore a volte allegre, a volte tristi?

La lettera è così pesante che ancora non sono stati inventati francobolli

per pagarla se dovessero pesarla sulla bilancia.

Rileggerò la lettera, ci penserò ancora un po’:

spedirla o no? E’ più probabile che non la spedirò.

Io su questi fogli soffro con forza sospetta

per queste tranquille parole tipo ”io non amo”.

Forse non amo? Se non amo, allora da dove viene

questo dolore di ricordare e la notte insonne senza fuoco

come se avessi dimenticato e non dimenticherò ancora per molto.

E voglio andarmene e chiedo di trattenermi?

Il telefono è a portata di mano. Basterebbe sollevare la cornetta dall’apparato

e telefonare alla stazione, chiamare Mosca lungo il filo…

Un rublo al minuto – che prezzo misero

per parole, senza le quali, a quanto pare, non sopravviverò. 

Poter sentire soltanto la tua voce! Così entrambi indovineremmo

che ancora non è la fine, che noi stessi siamo colpevoli in tutto.

Che siamo semplicemente costretti a fare un ultimo tentativo.

L’importante è partire.

Partire all’improvviso ed incontrarsi almeno a Bologoe.*

E sia. Fino a domani non posso pazientare.

Finirà che io ti telefonerò per davvero…

Me ne sto sdraiato nella mia stanza su un letto di legno,

aspetto l’espresso per il nord e scaccio vuoti pensieri.

Tu mi guardi negli occhi: forse conosco il sistema

di amare eternamente, di ottenere questo diritto –

prendere l’amore per il collo e tenerlo con mano forte.

Nient’altro? Se sapessi come fare!

Potevo andare via? Avrei dovuto incatenarti.

Ci saremmo separati? Allora potremmo avere

tutta una vita davanti.

A saperlo! Ma peccato – non conosco questa ricetta

grazie alla quale si può fare la guardia all’amore come agli oggetti.

No, mia cara amica, non voglio telefonare e non telefonerò.

Abbiamo deciso tutto in due e abbiamo deciso, a quanto pare, senza fatica.

Bada di non piangere, ora. Presto il treno se ne va di qua.

E’ ancora meglio che tu, in questo giorno, sia lontana da me.

Sì, è dura per me andar via. Non va bene non dire come stanno le cose.

Ma il lavoro mi darà una mano, come sempre.

Un uomo continua a vivere quando sa lavorare.

Così l’acqua tiene a galla i nuotatori esperti.

Allora perché sono così triste…

*Bologoe, città della Russia europea situata sulle sponde dell’omonimo lago. (NdT)


La lettera si troncava qui.

Immaginavo come lui guardava negli angoli vuoti.

Come nasconde nella tasca, assieme al biglietto, il suo sgualcito portafoglio –

un posto nello scomodo vagone della “Freccia polare” di Murmansk.

Riposta la lettera, uscii senza indugiare nell’ufficio.

Presi per la manica il portiere dai capelli grigi:

 – Non sapete dirmi, non sapete la città per la quale

è partito il tizio che ha affittato negli ultimi giorni la mia stanza?

– Non sono in grado di dirvelo, capitano persone molto strane.

Con la valigia in mano verso sera scese qui.

E quando gli chiesi se andava lontano,

mi rispose, impappinandosi, che ancora non aveva deciso dove andare.

Konstantin Simonov – 1938

Il poemetto si chiude, come diremmo oggi, con un finale aperto e domande irrisolte. Chi è stato a prendere l’iniziativa della rottura? Le cose potevano andare diversamente? Sul finale il portiere dell’albergo racconta che quello strano cliente ad una sua specifica domanda aveva risposto che nemmeno lui sapeva dove sarebbe andato. Quindi c‘è la possibilità che il nostro eroe (il poeta?…) sia infine tornato sui suoi passi…

In un incontro tenutosi sul finire degli anni ’60 all’università MGU di Mosca Simonov, incalzato dalle domande degli studenti, disse che lo colpiva molto constatare ogni volta il fatto che i lettori soffrivano per la separazione dei due protagonisti, che avrebbero preferito che non si fossero lasciati e che lui non si fosse seduto proprio su “quel” treno, confessando che sotto sotto anche l’autore desiderava esattamente la stessa cosa: tornare…invece se n’era andato.

Ed in effetti alla fine del 1938 Simonov si era sposato per la seconda volta ma in quello stesso anno aveva scritto questo poemetto, dedicato a Natalja: cinque pagine traboccanti d’amore per la prima moglie e di nostalgia per il loro comune passato.

Konstantin Simonov è stato uno degli autori più conosciuti della generazione dei cosiddetti poeti “di guerra”. Ampia notorietà gli avevano procurato durante la seconda guerra mondiale le sue poesie d’amore (celeberrima fu “Aspettami”) ed il romanzo “I giorni e le notti” del 1944, tradotto in tutto il mondo, in cui si celebrano l’assedio e l’epica difesa di Stalingrado.

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